Mentre al MIUR si raccolgono le osservazioni di genitori, insegnanti e operatori della scuola sulla vasta indagine nazionale intitolata “la Buona Scuola”, nella nostra città gli edifici che accolgono gli studenti si riempiono d’acqua, si deteriorano sempre più, e nei casi più eclatanti, le scuole – vedi la vicenda della Vidoletti di Masnago – vengono sgomberate ma solo per essere rappezzate.
Di quale buona scuola (stavolta minuscolo) stiamo parlando? Di quella dei manuali di pedagogia, o di sociologia, forse di quelli contenuti nelle utopie rinascimentali che ipotizzavano una città ideale?
Vero è che Varese non è l’unica città dove gli edifici scolastici diventano impresentabili alla prima neve, o alle ripetute piogge di queste irregolari stagioni. Succede anche a Milano, dove il governo della città è diverso da quello di Varese, e in tante altre parti d’Italia, ma questo stato di diffuso degrado non ci consola nemmeno un po’.
Quando i genitori, stanchi di sentirsi raccontare dai figli che nel laboratorio di pittura non sono potuti entrare perché è filtrata acqua dal soffitto, si propongono di fare loro da operai, e partono, armati di stucchi, vernice e pennelli, ecco che arriva l’ordine dall’alto: non si può. Chi assicura il genitore se cade mentre dipinge la parete dell’aula del figlio? E di chi sono i soldi usati per i pennelli? E chi tiene aperto l’edificio durante il week end se non ci sono fondi per lo straordinario?
Una società che non investe sulla scuola, lo abbiamo affermato in varie occasioni e sentito dire troppe volte, è una società senza futuro. Se si tagliano i fondi alle scuole, si riducono le ore di sostegno, si lavora in aule umide e dai muri scrostati, quale idea di educazione trasmettiamo ai giovani?
Perché consideriamo un lusso esercitare i ragazzi al concetto di bellezza, perché di bellezza non si può certo parlare nelle aule dove pendono impietose tende sporche, troneggiamo vecchie lavagne impolverate e ci si siede su sedie sbrecciate?
Che i pedagogisti si affannino pure a scrivere che il luogo in cui si impara (si legga “setting pedagogico”) è importante, importantissimo!
Gli aspiranti docenti che studiano nelle università italiane, perché oggi si deve essere, e giustamente, laureati per accedere a qualunque ordine di scuola, continuino a sognare una buona scuola preparando esami sulle utopie di filosofi, di sociologi, di pedagogisti e di neuro scienziati operanti nel campo dell’educazione. Impareranno, a proprie spese, quanto divario esiste tra gli ideali educativi del Terzo Millennio e le scuole reali sparse nel Belpaese.
Intanto gli edifici scolastici di Varese, e quelli di Milano, e poi di altre città, “fanno acqua”, anzi la ricevono, come la scuola Vidoletti, ultima ma, ahimè, non ultima: quante scuole soffriranno i danni del meteo quest’inverno dipenderà dalla quantità di pioggia, neve e intemperie che colpiranno il Nord Ovest del paese, area Verbano, Lario, Prealpi.
Poco cambia se il dinamico dirigente scolastico della Vidoletti non si perde d’animo e annuncia che “non andrà persa neppure un’ora di scuola” perché ai ragazzi viene garantito di continuare a studiare in altri spazi dell’edifico. Si sono abituati a non stupirsi se la loro scuola va a pezzi, a non accorgersi nemmeno (forse) di quanto sia brutto l’ambiente in cui studiano.
Ma chi sarebbe il terzo educatore citato nel titolo di questo articolo? Il terzo educatore è l’ambiente educativo, nel nostro caso l’edifico scolastico con i suoi spazi attrezzati e i materiali di supporto all’apprendimento. Il concetto è stato messo a punto in un libro del 2010, prodotto da un gruppo di settantanove esperti, architetti, psicologi, sociologi e pedagogisti americani, e analizza l’importanza degli spazi destinati all’apprendimento. Nel testo, in inglese “The third teacher”, si afferma che la progettazione e la costruzione di edifici scolastici deve basarsi su nuovi principi educativi che leghino strettamente gli spazi con la didattica.
Però, capisco, anche questo libro fa parte delle utopie, quelle del terzo millennio in una nazione che non è l’Italia.
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