L’allarme per la situazione economica italiana che provoca disoccupazione e impoverimento del Paese è altissimo, nell’arco di vent’anni il PIL è aumentato di appena un sesto ed è fermo dal 2011, mentre nel settore chiave dell’economia, quello manifatturiero, il valore del prodotto è oggi uguale a quello del 1984. Se dividiamo il prodotto interno lordo per il numero degli occupati abbiamo l’indicatore della produttività media del lavoro che in Italia è diminuita mediamente dello 0,5 per cento per anno.
Lo scenario dell’Italia è impressionante; i posti di lavoro diminuiscono, i beni ad alto contenuto di conoscenza sono in calo; il capitale è rarefatto e senza quello non crescono produttività e occupazione.
La crisi globale iniziata nel 2008 è stata invece superata in America, la disoccupazione si è dimezzata e gli investimenti sono cresciuti del sessanta per cento; questa spettacolare inversione di tendenza è avvenuta in regime di severa austerità dei bilanci pubblici e comunque non è stata imposta da vincoli esterni (come, da noi, quelli europei) ma per scelta politica del governo federale.
In un economia di mercato lo Stato non può creare posti di lavoro per legge, può soltanto attuare incentivi (o disincentivi) per vitalizzare o deprimere la domanda di beni.
Quello che lo Stato italiano deve fare è ridurre i vincoli che impediscono alla nostra industria di modernizzarsi e di crescere; soltanto in un quadro di riforme strutturali si può favorire la ripresa del nostro Paese; servono nuove regole sul lavoro più moderne e flessibili ma accompagnate da un sistema di protezione sociale. La spesa pubblica improduttiva deve diminuire eliminando gli sprechi e la corruzione in modo da poter tagliare le tasse, mantenendo comunque il welfare state che protegge le persone dagli incerti del futuro; il sistema giudiziario va reso più veloce; la pubblica amministrazione meno antiquata, la scuola messa in grado di formare i giovani.
Bisogna realizzare quello che in tanti anni non si è riusciti o non si è voluto fare non solo per l’immobilismo della classe politica ma anche per una mentalità conservatrice del nostro popolo che a parole vuole il cambiamento ma nei fatti non accetta di mettere in discussioni i piccoli o i grandi privilegi acquisiti.
La capacità produttiva del Paese è fatta di lavoro, capitali, tecnologia, imprese che organizzano la produzione, banche che la finanziano, attività pubbliche che forniscono i servizi. Il nostro sistema produttivo non è più cresciuto dagli anni Novanta, ha esportato abbastanza ma ha investito quasi
niente.
Il paradosso italiano è la coesistenza di alti profitti e bassi investimenti; i profitti (centinaia di miliardi) non sono destinati agli investimenti ma ai proprietari, agli azionisti, ai dirigenti e alimentano le attività della finanza, della speculazione e delle rendite, oppure sono parcheggiati nei “paradisi fiscali”; aumentano così le disuguaglianze sociali nella popolazione.
Come si spiega che l’economia americana è ripartita mentre quella italiana è rimasta al palo?
La chiave per capire la differenza tra i due sistemi economici è l’altissimo livello di innovazione, soprattutto nel settore dell’export dell’industria d’oltre oceano. Il settore dei servizi, che dà lavoro a oltre un terzo degli italiani non è molto diverso tra i due Paesi; la produttività è all’incirca pari ma questo settore ha un impatto locale mentre è l’export che fa la differenza, dove si confrontano le imprese che fanno ricerca e sviluppo e conseguentemente producono beni di migliore qualità.
In Italia il settore dell’export è prevalentemente basato sui settori tradizionali dove le nostre piccole imprese (sono l’85 per cento del totale), che hanno costituito la base del “boom” del passato, stentano a finanziare la ricerca in quanto non possono spalmare su migliaia di unità il costo (fisso). La globalizzazione ha penalizzato il nostro sistema industriale perché le nostre imprese sono entrate in competizione diretta con quelle dei Paesi emergenti che hanno costi di lavoro e oneri sociali molto minori.
La nostra legislazione e l’alta pressione fiscale non favoriscono la crescita delle aziende: le più grandi (la Olivetti, la Montecatini e molte altre) sono scomparse, oppure operano in condizioni difficili.
Se l’impresa è troppo piccola la ricerca non ha ragione di essere ma così arretriamo nella competizione internazionale.
Infine il capitale umano, che è diventato il fattore produttivo più importante, è da noi sottovalutato sia dalle imprese che dallo Stato che ha delegato la formazione professionale alle Regioni con risultati negativi. La precarizzazione del lavoro ha avuto effetti negativi nella dinamica dei salari e del potere d’acquisto necessario a sostenere la domanda interna. Il motore della crescita è nella produttività del lavoro, il valore di quanto produce in media ciascun lavoratore occupato, utilizzando i capitali e le tecnologie esistenti nell’azienda.
Tutto il nostro sistema di regole, di incentivi, di imposizione fiscale è da rifare. Il risultato della “rivoluzione liberale” del “lasciar fare” secondo i meccanismi dei mercati è stato un ventennio perduto per la nostra economia e la società italiana. Il problema non è l’euro; la moneta unica è uno strumento per raggiungere obiettivi comuni; se è finalizzata al liberismo e alla finanza, occorre togliere di mezzo non la moneta ma il modello liberista a cui è asservita.
Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha posto i problemi giusti ma la condizione dei conti pubblici e le resistenze corporative condizionano negativamente la realizzazione delle riforme necessarie. Tuttavia non ha incluso nella sua “agenda” due temi fondamentali: la ricerca e l’innovazione e un piano industriale di orientamento per il nostro sistema produttivo.
Nessun Paese è mai cresciuto senza massicci investimenti in aree fondamentali come l’istruzione, la ricerca e la formazione del capitale; investire in un “sistema di innovazione” è fondamentale per la competitività e la crescita, senza aggravare il debito.
Se le riforme strutturali senza investimenti non producono crescita, la domanda è da dove arriveranno i fondi in un periodo di grave crisi economica. La risposta è che devono venire, almeno in parte, dalle imprese private dell’Unione Europea, mentre un ruolo chiave compete alla Banca Europea degli Investimenti e la nostra Cassa Depositi e Prestiti che erogano prestiti a medio e lungo termine a tassi meno alti di quelli di mercati e in cui l’Italia eccelleva prima dell’improvvida
trasformazione in banche di credito ordinario di tali Istituti, come l’IMI, il Mediocredito Regionale, Mediobanca e la Banca Commerciale Italiana, a cui si deve la creazione e lo sviluppo dell’industria italiana nel dopoguerra.
Le proteste delle Regioni verso la riduzione della spesa pubblica non produttiva sono ingiustificate non solo perché anch’esse, alla pari delle altre istituzioni e dei vari settori produttivi, non sono esenti dall’obbligo di sollevare i cittadini dai sacrifici imposti alla crisi, ma soprattutto perché la spesa regionale, dopo l’approvazione del nuovo Titolo V della nostra Costituzione, è aumentata in un decennio del quarantacinque per cento, in misura assai maggiore di quella statale, con esborsi a favore della classe dirigente che i cittadini hanno definito come “spese folli”. Il solo comparto che funziona bene è quello della sanità ma i costi sostenuti sono assai diversi tra le diverse realtà e pertanto sono suscettibili di consistenti risparmi.
La struttura di una nazione avanzata come l’Italia non si cambia dall’oggi al domani; non bisogna farsi illusioni di poter colmare i vuoti e le inerzie del passato in pochi mesi; serviranno verosimilmente parecchi anni per poter cambiare significativamente il nostro sistema.
Questa non è però una ragione per ritardare le riforme, semmai è il motivo decisivo per farle subito e bene; non occorre aspettare l’eroe di turno affinché vengano risolti gli annosi problemi che
Il modello di sistema che abbiamo scelto nei decenni scorsi è stato lasciato agli impulsi del mercato. L’azione efficace di governance da parte dello Stato non è stata fatta prima, ma non è una buona ragione perché non si rimedi oggi per salvaguardare il futuro delle prossime generazioni.
Purtroppo in Italia, da vent’anni a questa parte, il confronto politico non si basa sull’affermazione di un programma, di un’idea di Paese bensì sulla critica dell’avversario, su un modello di politica della “malafede”. La conseguenza è la mancanza di una strategia unitaria.
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