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Spettacoli

IL FAVOLOSO LEOPARDI

MANIGLIO BOTTI - 28/11/2014

leopardiÈ una cosa ovvia ma giova rammentarla: l’opera cinematografica, come quella letteraria e/o poetica, ha una sua specificità; essa ricomprende quasi sempre un contributo collettivo: quello del regista, degli sceneggiatori, dell’autore della colonna sonora, degli attori soprattutto. Il poeta invece non necessita di aiuti. È solo.

La commistione dei due generi, cioè la loro “riproduzione” al fine di trasmettere senzazioni e, in particolare, emozioni allo spettatore (o al lettore/ascoltatore) non è cosa facile. Per questo motivo dire che Mario Martone, regista di “Il giovane favoloso”, film biografico su Giacomo Leopardi – uno dei poeti più noti e celebrati della nostra letteratura –, vi sia riuscito ci sembra al momento un azzardo. Già l’aggettivo “favoloso” indicato nel titolo per determinare il carattere della vita breve di Leopardi è poco chiaro: che significa? Leggendario? Favoloso per sottolineare che è troppo bravo, come d’uso secondo una terminologia corrente e superficiale?

È un azzardo, dunque, perché forse il film andrebbe rivisto e, in un certo qual modo, ripensato. Ciononostante l’opera presentata a Venezia e poi entrata nei circuiti è balzata subito ai primi posti del botteghino. A favore di ciò pare essere stata non tanto la curiosità di liceali (o ex), quanto un’accorta campagna pubblicitaria sul web e nei media. (Rai Cinema, impresa coproduttrice, ha ben giocato il suo ruolo).

“Il giovane favoloso” per chi ha di Giacomo Leopardi – uno dei nostri poeti più amati, oltre che conosciuti – anche una vaga conoscenza, ha un andamento altalenante. Presenta annotazioni politicamente corrette e altre – dato che non sono state accertate – ipotizzate, forse inventate.

Nel racconto della vita di Leopardi la cronologia non è rigorosamente rispettata, né quella umana né quella poetica. Egli vive sì, nella vita e nel film, agli inizi dell’Ottocento e in un ambiente reazionario e ostile, ma viene talora rappresentato come un giovane contemporaneo (per esempio l’urlo di contestazione nei confronti del padre e dello zio). Le immagini che Martone ammannisce sono quelle che lo spettatore vuole o che il regista pensa lo spettatore voglia: Giacomo (Elio Germano nel film) dalla finestra della sua casa (il “paterno ostello”) contempla la luna che campeggia nel cielo; Giacomo nanerottolo, rachitico, gobbo, devastato dalla scoliosi e alla ricerca di un conforto femminile. Si sa – e basta leggerne le poesie – che la vita di Giacomo Leopardi non fu favolosa ma oltremodo sventurata. Ipotesi per ipotesi, crediamo che Leopardi avrebbe barattato tutta la sua cultura o buona parte di essa per un affetto, che non fosse come tutti i suoi “acerbo e sconsolato”.

Le rivisitazioni nella storia – e a quanto pare ora anche nella letteratura –, le più trasgressive di canoni tradizionalmente accettati, ormai sono una moda. Ironia, sense of humour, momenti lieti, come capita a ogni essere umano, si possono trovare qua e là nella sua vita e in qualche riga dello Zibaldone, dell’Epistolario e magari anche dei Canti; ma che fatica, ragazzi! Leopardi fu il poeta del dolore, e per questo è stato ed è tanto amato. “E forse non l’abbiamo mai amato tanto”, scriveva Carlo Bo, aggiungendo quanto però fosse pericolosa una tale passione, che inevitabilmente porta a pericolosi suggerimenti e a suggestioni.

Dei Canti che Mario Martone sceglie per “condire” il suo film troviamo l’Infinito, il più famoso, quello che una volta si mandava a memoria già alle elementari, senza capirlo (“…E il naufragar m’è dolce in questo mare”); la Sera del dì di festa, il più suggestivo almeno nell’attacco, questo sì favoloso (“Dolce e chiara è la notte e senza vento, / E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti, / Posa la luna, e di lontan rivela / Serena ogni montagna…”), e la Ginestra, il penultimo composto dal poeta un anno prima di morire – l’ultimo fu con ogni probabilità il Tramonto della luna –: il più complesso. Tutti recitati dalla voce calda e piana di Elio Germano. Altri e molto conosciuti sono direttamente o indirettamente accennati: All’Italia; Il Sabato del villaggio (descritto con una rapida inquadratura); A Silvia, solo illustrato attraverso alcune immagini colte dal poeta alla finestra e nella morte della figlia del cocchiere di casa Leopardi, Teresa Fattorini; il cosmico Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, citato nel film in modo quasi banale da una battuta del Giordani… E, proprio en passant, il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere delle Operette morali.

Molto nel film – e anche qui siamo nel politicamente corretto – si insiste sullo sfortunato (sfortunato per Leopardi) rapporto con Fanny Targioni Tozzetti e più giustamente sull’amicizia con l’aitante “esule” napoletano Antonio Ranieri, fisicamente – e magari anche spiritualmente – all’antipodo di Giacomo.

È solo una sensazione, ma in alcuni episodi raccontati dal film e interpretati da Elio Germano, che nonostante l’impegno e le caricature non ha davvero – beato lui – il fisico di Leopardi, lo spettatore quasi si compiace (tra sé e sé: mia colpa mia massima colpa), in una specie di inconscio voyeurismo quando il Nostro sbertucciato per i suoi handicap si trova in un buio lupanare di Napoli alle prese con un ermafrodito. E anche sorride dinanzi all’irriverenza del Tommaseo, ben sapendo oggi che Leopardi è diventato Leopardi e Tommaseo un letterato i cui scritti sono noti a pochi dotti.

Un po’ come quando da giovane giornalista Matilde Serao si trovò a intervistare Fanny Targioni Tozzetti – l’episodio è raccontato da Indro Montanelli nella sua Storia dell’Italia giacobina e carbonara – e alla domanda perché la signora avesse sempre snobbato le avances del grande poeta ella rispose con sussiego: “Puzzava”.

Ecco, il film di Martone puzza un po’, non nel senso letterale del termine naturalmente: sa troppo di facili rimasticature, di una captatio benevolentiae forzata e che quindi lascia freddi, perplessi. Mancano – ma può darsi che ci sbagliamo perché Leopardi è più grande di noi e di Martone – le emozioni, la commozione che rendono alta, altissima la poesia. Anche di un film.

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