L’impatto psicologico dell’altissimo astensionismo alle elezioni regionali di domenica 23 novembre ha scatenato il dibattito sui mass-media pro o contro il premier-segretario del maggiore partito, ma il fervore della polemica immediata tende a oscurare il lume dell’approfondimento.
L’entourage PD che difende Renzi sembra, per carità di patria, voler davvero credere che i risultati elettorali in Emilia Romagna e Calabria siano figli solo di questioni locali (dalle dimissioni di Errani per condanna in primo grado di giudizio alle inchieste per i rimborsi dei consiglieri regionali in Emilia, alle analoghe dimissioni di Scopelliti in Calabria), che hanno demotivato gli elettori sull’istituzione-Regione. Farebbero bene, per coerenza con una bella tradizione politica, a privilegiare il pessimismo della ragione per ancorare l’ottimismo della volontà.
Con il peso della crisi economica e occupazionale ancora acuto sulla carne viva degli italiani e il peso dei mass-media nel determinare l’immagine dei partiti, è miope pensare che le scelte elettorali locali non risentano di valutazioni, “di testa”, “di cuore” o “di pancia”, sul governo nazionale, che per il PD significa anche sul segretario del partito. Tanto più perché si parla non di elezioni comunali, dove gli aspetti personali e di giudizio locale possono prevalere perché realmente a portata di mano dell’elettore, ma regionali, dove l’istituzione rimane lontana e il giudizio locale svapora, tranne che per le elites iper-politicizzate, che non sono certo la maggioranza dell’elettorato.
E ancora di più trattandosi di due regioni diversissime tra loro, ma dove l’insediamento di sinistra è storicamente molto simile, molto “rosso” in senso tradizionale, con reazioni di voto “di pancia” e “di cuore” prima che “di testa”.
Quale che sia il gradimento per il personaggio, occorre riconoscere obiettivamente che il risultato è uno schiaffo a Renzi: sono elezioni che per lui non ci volevano proprio in queste due regioni, perché il cambiamento “liberal” (non liberista), che il premier-segretario ha impostato per il Governo e il PD, non ha certo avuto il tempo di manifestarsi in buoni risultati per l’Italia, ma ha provocato conflitti con le forze sociali di tradizionale riferimento per un PD “partito del lavoro”, come è sempre stata nei fatti – anche quando non nelle intenzioni – la versione italiana della socialdemocrazia riformista.
Scontrarsi col segretario FIOM Landini dopo averlo fatto rappacificare con la segretaria generale CGIL Camusso, proponendosi a entrambi come “nemico comune”, ha inevitabilmente sconcertato un elettorato di sinistra che pure – specialmente in Emilia – aveva osannato Renzi ai tempi delle ultime Primarie, e ancora alle Europee super-vinte in retromarcia di votanti, perché Renzi appariva come “il nuovo che vince”, che vince contro Berlusconi essendo più furbo e più abile – e più giovane – di lui, e sfruttando a vantaggio della sinistra gli accordi contingenti come quello del Nazareno. Al contrario che in passato, quando i leader PD e DS e PDS avevano pur sempre trescato con Berlusconi, ma facendosene sistematicamente fregare (vedi D’Alema con la Bicamerale, che ha distrutto Prodi).
Insomma, i leader socialdemocratici del recente passato hanno agito sempre in logica di larghe intese, convinti come D’Alema che l’ltalia sia e sarà per l’eternità un paese visceralmente di destra, ma ne sono usciti con le ossa rotte; Renzi agisce in logica di strette intese ma batte tutti, quindi appare come il messìa che l’elettorato di sinistra si aspettava da decenni. Mentalmente, “di testa”, l’elettorato di sinistra tradizionale non era e non è ancora preparato al merito politico renziano: l’ha sempre immaginato come un giovane finalmente vittorioso che surclassava in leadership i capi del passato, ma che avrebbe sostenuto le politiche tradizionali e le alleanze storiche con la CGIL. Quelle che, a ben vedere, sono state subordinazioni e “sudditanze psicologiche”: per il marxismo-leninismo classico il sindacato doveva essere la cinghia di trasmissione del partito, ed anche nella vicenda italiana, ideologicamente incatenata ai rapporti internazionali, quell’impostazione caratterizzava i rapporti tra PCI e CGIL, e ne pagò le conseguenze il povero Di Vittorio.
Al contrario, dopo la caduta del Muro di Berlino e nella recente vicenda italiana di labourismo para-peronista, la CGIL è diventata l’azionista di riferimento della Ditta, il “paese reale” in contrasto con il “paese legale” dei politici. Per tenersi stretto questo collegamento, la Ditta del riformismo socialdemocratico, da Occhetto a D’Alema a Bersani, enfatizzava il valore della democrazia come rappresentatività parlamentare, paventando la decisionalità di governo come rischio autoritario e agganciando le politiche del lavoro al placet CGIL. Orientamento comune alla dirigenza di sinistra socialdemocratica e al suo elettorato tradizionale, per nulla modificato alla nascita del PD con la confluenza della sinistra ex-democristiana della Margherita, e anzi esteso ai maggiori esponenti di quest’ultima, dalla Bindi sino a Letta.
Il cambiamento renziano ha messo in crisi i tradizionali punti di riferimento “di merito” di quest’area politico-elettorale (prima gli scontri con la minoranza Dem e con tutta la cultura politica e sindacale che le sta dietro sulle riforme istituzionali), puntando a rendere governo e parlamento più efficaci e efficienti nei risultati (monocameralismo, revisione Titolo V della Costituzione, legge elettorale maggioritaria), a prezzo di una minor rappresentatività. Con conseguente demonizzazione di Renzi come “uomo solo al comando”.
In seguito lo scontro sia con la minoranza Dem sia direttamente con CGIL-FIOM sul Jobs Act, che – tra le tante novità, messe in ombra dal dibattito pubblico – punta a sostituire la rigidità disfunzionale di tutele bloccate su regole giuridiche prescrittive (art. 18: i contenziosi impresa/lavoratori sono inevitabili e comanda il giudice), con tutele derivanti da un più dinamico gioco degli interessi (imprese sane e imprenditori seri hanno convenienza a valorizzare lavoratori capaci e produttivi e a mantenere azienda e occupazione; comunque, se l’impresa deve stare in piedi e produrre lavoro, deve comandare l’imprenditore e non il giudice, salvo sui diritti fondamentali), a prezzo di 1000-2000 reintegri in meno. Con conseguente demonizzazione al quadrato di Renzi come “padrone-servo dei padroni” e traditore sia della classe operaia (ma non doveva, sin da Veltroni e avendo compreso la saggezza della dottrina sociale della Chiesa, essere un partito interclassista?), sia della sinistra (ma non doveva, sin da Veltroni e avendo assorbito la Margherita, essere un partito di centro-sinistra?).
Tutto ciò è avvenuto troppo in fretta per non sconcertare inesorabilmente “la testa” (analisi dei problemi e giudizio razionale sulle prospettive di soluzione) e scombussolare “la pancia” (percezione intuitiva degli interessi) dei Rossi-duri-e-puri di Emilia Romagna e Calabria.
È rimasto però “il cuore” (senso di appartenenza ad una comunità di militanza solidale, affezione e motivazione di sentimento collettivo), e un certo senso di moderazione, a impedire un “tradimento” del partito e il passaggio ad altra lista, per di più percependo la sinistra radicale come perdente per natura, e quindi riproducente quella sinistra inutile che aveva indotto l’iniziale ondata di simpatia per Renzi alle primarie 2013.
Quindi il ripiego sull’astensionismo è il frutto a sinistra di uno scoraggiamento per la messa in crisi degli ancoraggi politico-ideologici tradizionali, misto alla delusione per risultati miracolistici sul “nuovo rinascimento” promesso da Renzi, che richiedono tempo e ancora non si vedono (le riforme non sono nemmeno tradotte in leggi formali, figurarsi i risultati a valle!). E misto alla disillusione sulle possibilità che altri diversi da Renzi possano fare alcunché, come conferma a destra la crescita della Lega lepenista di Salvini, che intercetta i peggiori “vomitismi” dell’elettorato.
Del resto, che non si vedano vere alternative a Renzi è anche la paradossale ragione dell’astensionismo di destra, e quindi dell’esplosione dell’astensionismo in generale.
Renzi non ha colpe? Certo, l’azzardo di defenestrare al volo Letta, per non declinare irrimediabilmente come PD, gli ha pagato bene alle elezioni europee, grazie anche alla paura verso Grillo. Ma ora presenta il conto: governare con un partitino dell’area di destra che condiziona ogni passo, e con il proprio partito bloccato sull’impostazione tradizionalmente socialdemocratica, anziché “liberal” del riformismo, in un contesto europeo di vincoli esorbitanti, significa fare equilibrismi continui da funambolo. Rischiando continuamente di cadere, si è costretti a continui riaggiustamenti della posizione, che rallentano e fan fare brutte figure. E il pubblico non applaude, se non per incoraggiamento di simpatia, i funamboli che vacillano, che non arrivano in fondo.
Tutto sta a quanto dura lo spettacolo, e quando si arriva in fondo. Può darsi – molti se lo augurano per l’Italia – che Renzi ce la faccia, che le elezioni regionali di domenica 23 siano ancora un vacillare: non ha suscitato applausi se non dai tifosi, ma la fune è ancora tesa e la fine ancora visibile. E le riforme ancora in gestazione aspettano il parto finale, per sostenere la fune e raggiungere la meta.
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