A dicembre avrebbe compiuto cento anni. Una vita di corsa col rosario in tasca, una vita vissuta senza risparmio, come se quella voce dall’alto lo chiamasse ovunque ce ne fosse bisogno. Era difficile seguirlo in quella frenetica euforia che lo animava ogniqualvolta decollava dal suo De Filippi. Un eloquio a scatti, un passo rapido, capace di intraprendere senza indugi la via da percorrere.
Monsignor Tarcisio Pigionatti era così, sempre di fretta, come se il suo tempo a disposizione dovesse interrompersi da un momento all’altro, come se qualcuno gli avesse suggerito di non tralasciare nulla di quanto gli era stato concesso. Non era facile stargli accanto, per quella sua operosità dinamica, dirompente, capace di sorprendere chiunque. C’era molto di Montini in quell’animo un po’ solitario, forse un po’ introverso, dotato di un’intelligenza viva, pronta, umana, capace di affermare, confermare e mediare sempre, soprattutto quando la barca faceva acqua e bisognava ricorrere alle navi di salvataggio.
Montini era il suo papa. Lo amava con un rispetto riguardoso e ogni volta che ne parlava gli brillavano gli occhi, come se il grande papa lombardo fosse lì accanto ad ascoltarlo. Un amore nato quando Giovanni Battista Montini era succeduto ad Alfredo Ildelfonso Schuster, il grande prelato benedettino che lo aveva confermato nella via sacerdotale e di cui era grande estimatore. Passionale e inquieto, sapeva riscaldarsi ogni volta che percepiva la bellezza di un carattere o di un’azione in cui decifrava la presenza dell’autorità divina. Come il suo papa capiva la necessità di una chiesa universale, non più legata soltanto alle tradizionali forme di nazionalismo curiale.
In questa rinnovata visione Pigionatti ha aperto le porte del De Filippi e di Varese al mondo, a quel mondo che voleva imparare, apprendere e vivere per uscire dalla solitudine della povertà e dell’ignoranza, quel mondo che guardava con speranza a una legittimazione di libertà e di dignità. Ha chiamato a raccolta studenti provenienti dall’Africa, dal Sudamerica, dal Medio Oriente, dall’Asia, li ha convocati nel suo convitto, oltrepassando barriere e steccati, lingue e tradizioni, religioni e costumi.
Il De Filippi è diventato il nuovo mondo, un mondo che ha sconvolto e sorpreso chi non era abituato all’intromissione di costumi, colori, razze, lingue, modi di essere, ma che ha dimostrato quanto di umanamente universale fosse presente nella varesinità dei suoi preti e della sua gente. La collina si è trasformata in un laboratorio, animato da un monsignore inarrestabile. Sono caduti steccati, differenze di qualsiasi ordine. Cattolici, protestanti, islamici hanno vissuto a tu per tu con un rettore che puntava diritto all’uomo e ai suoi bisogni primari, quelli che se ben orientati danno il senso della forza e della bellezza della vita umana.
È in questa grande democrazia globale che don Tarcisio ha depositato la sua generosità lombarda, gli insegnamenti appresi da Schuster e Montini, è in questa nuova era della religiosità varesina che in molti hanno guardato con ammirazione e stupore alla collina dei “miracoli”. In lui non c’era solo la forza di una terra che parlava il linguaggio dell’imprenditorialità e della convivenza civile, c’era il gusto di un’ italianità vera e profonda, che affondava le sue radici in sentimenti familiari e nell’amore per chi quei sentimenti li aveva difesi e diffusi. Durante il secondo conflitto mondiale era al fronte insieme agli alpini per riscaldare e illuminare le zone d’ombra della guerra, per portare fiducia e speranza dove morte e disperazione regnavano sovrani.
Con don Tarcisio Varese ha imparato e insegnato il linguaggio della solidarietà universale, con quella aristocraticità di costume che l’ha sempre contraddistinta. Sono passati tanti anni, ma quella figura un po’ leggendaria, autrice di mille iniziative, è ancora ben presente nel cuore di una città che silenziosamente lo ha amato.
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