Dopo una luna di miele felice repentinamente seguita da una stagione di litigi e rancori eccoci al divorzio tra RFI (Rete Ferrovie Italia) e la ICS Grandi Lavori del gruppo Salini, rispettivamente appaltante e appaltatore nella costruzione del braccio ferroviario Malpensa – Mendrisio, riduttivamente più noto come Arcisate –Stabio.
Punto e a capo proprio quando tutti (abitanti della Valceresio in primis, lavoratori del cantiere, varesini e ticinesi) davano per certa la ripresa a breve dei lavori dopo il via libera, il 10 novembre, del CIPE (Comitato interministeriale per la politica economica) ai finanziamenti supplementari per lo stoccaggio delle terre all’arsenico “scoperte” durante la prima fase dei lavori. Invece RFI ha preferito far saltare il banco affermando che la Salini avrebbe presentato nuovi preventivi di spesa fuori dal mondo, inaccettabili. Di qui la rescissione del contratto, la necessità di una nuova gara d’appalto, il destino degli operai appeso a un filo, lo slittamento alle calende greche del completamento della linea, la magra rimediata nei confronti della Confederazione che ha invece messo a punto il ramo di sua competenza, peraltro di più semplice fattura, nei tempi previsti affidando i lavori non a un’impresa tedesca o norvegese ma alla stessa Salini. Salini che come è suo diritto si difende a spada tratta con dichiarazioni dettagliate ai media accusando, in buona sostanza, RFI di non stare ai patti sottoscritti a partire dal 2013.
Comunque sia, più di una cosa non quadra in questa telenovela tutta italiana girata nel profondo Nord. Soprattutto c’è un interrogativo di fondo inevaso, quello relativo alla scoperta in corso d’opera – e non durante i sondaggi geognostici preliminari – di terre all’arsenico non utilizzabili, leggi alla mano, nel prosieguo del cantiere. Dunque da smaltire in siti idonei con conseguente impennata dei relativi costi. La classica trave nelle ruote di un’infrastruttura che sembrava invece aver imboccato la strada giusta dopo decenni di discussioni e progetti.
L’infausto rinvenimento di terre all’arsenico a più riprese ha bloccato il cantiere dando corso a un paralizzante braccio di ferro tra appaltante e appaltatore senza che sia mai stato chiarito alla luce del sole e in maniera incontrovertibile se i sondaggi preliminari siano stati condotti a regola d’arte al di là di ogni ragionevole dubbio e da chi. Perché, come ha sottolineato tempo fa l’arcisatese ingegner Rino Comolli, una vita di lavoro nelle grandi opere, che nei terreni toccati dalla ferrovia ci fossero terre all’arsenico era cosa nota. Sembra incredibile che nessuno se ne sia accorto o che quanto meno le valutazioni siano state superficiali se non addirittura interessate.
È questo il punto nodale di tutta la questione e i due protagonisti in commedia (RFI e Salini) dovrebbero finalmente mettere tutte le carte in tavola o qualcuno (la magistratura?) dovrebbe costringerli a farlo. Per rispetto dei lavoratori che rischiano il lavoro e dei cittadini tutti, in particolare quelli di Induno Olona e di Arcisate da anni costretti a vivere in territori violentati dai cantieri e che ciò nonostante hanno sempre sostenuto il cammino di questo collegamento strategico con la Svizzera, quindi con il cuore dell’Europa. Un “treno dei desideri” che avrebbe anche due altri non lievi meriti:1) alleggerire la pressione automobilistica del traffico dei lavoratori frontalieri su una rete viaria prossima al collasso di primo mattino e nelle ore del rientro serale; 2) ricollegare su ferro, via Mendrisio, Varese e Como, separate da soli ventisette chilometri di unica e congestionata statale dopo la cancellazione miope e ottusa, nel 1966, della linea delle Nord (allora non ancora regionalizzate) che univa comodamente i due capoluoghi.
Detto questo va anche sottolineato che non stiamo certo parlando di una nuova “transiberiana” ma di una modesta “transinsubrica” di complessivi otto chilometri di cui è previsto il raddoppio fra Induno e Arcisate del tracciato esistente (4,6 km) e la costruzione di una nuova linea a doppio binario (3,6 km) fino al confine di Stato del Gaggiolo. Per tacere del destino, sconosciuto a tutti, del ramo per Porto Ceresio, ora sepolto dalle erbacce ma che nelle intenzioni iniziali dovrebbe venir riattivato una volta conclusa la nuova tratta. Certo è che i cittadini contribuenti escono ancora una volta “cornuti e mazziati” da una vicenda a dir poco opaca che va inserita a pieno titolo nella lista delle vergognose incompiute disseminate nel bel Paese: scuole, ospedali, carceri, ponti, piscine, palazzetti delle sport, aborti vari di strade e autostrade e naturalmente ferrovie.
Prometteva (2009) il buon Raffaele Cattaneo, allora assessore regionale della Lombardia, che entro il 2013 tutto sarebbe stato pronto. Siamo alla fine del 2014 e il cantiere sembra la materializzazione prealpina del “Deserto dei tartari” del grande Dino Buzzati, senza neppure un tenente Drogo ferroviario a scrutare l’orizzonte dove peraltro si avvistano festeggiamenti e movimenti di treni. Svizzeri però.
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