Tutti i commentatori hanno sottolineato, all’inizio della settimana, gli elementi prevalentemente critici della scarsa partecipazione alle urne nelle consultazioni regionali di domenica in Emilia-Romagna e in Calabria. Al di là dei risultati, in gran parte scontati, è stato proprio il forte calo dei votanti a far parlare di una disaffezione dalla politica, di una delusione per le scelte dei governi nazionali e regionali, di una protesta verso una classe dirigente parolaia quanto inconcludente.
Tutto vero, ma c’é qualcosa di più. Non si può dimenticare infatti che questa tornata elettorale si era resa necessaria per le dimissioni dei due presidenti regionali: a Bologna Vasco Errani dopo una condanna in appello per falso ideologico, a Reggio Giuseppe Scoppelliti dopo una condanna in primo grado a sei anni di carcere per abuso d’ufficio e falso in atto pubblico. E insieme alle dimissioni dei presidenti, le due giunte e i rispettivi consigli regionali erano entrati nell’occhio del ciclone per le inchieste della magistratura sull’uso quanto meno irregolare del finanziamento pubblico ai gruppi politici.
Senza entrare nel merito dei giudizi si può comunque affermare che queste due regioni, così come purtroppo molte altre, hanno dimostrato l’estrema fragilità di una costruzione istituzionale che, a fronte di costi sicuri e crescenti, fornisce servizi che faticano ad essere in linea con le esigenze della popolazione. È ormai chiaro che il sistema delle Regioni, così come è stato concepito negli anni ’60 ed attuato a partire dal 1970, ha costituito uno dei più consistenti elementi che hanno permesso l’allargarsi della spesa pubblica (e quindi del debito pubblico) in Italia. Le Regioni infatti sono nate con una relativa autonomia in alcuni settori, in particolare quello della sanità, ma senza un’altrettanto diretta responsabilità a livello di finanziamento e quindi di partecipazione diretta dei cittadini attraverso i meccanismi fiscali.
L’istituzione delle Regioni, a cui si oppose con forza solo l’allora Partito Liberale, è stata il primo compromesso storico anche se non dichiarato: era infatti evidente che la riforma comportava una cessione di capacità legislativa e che quindi alcune Regioni, in particolare Emilia-Romagna, Toscana e Umbria sarebbero state sicuramente governate dall’allora Partito Comunista.
A complicare ancora di più le cose è venuta poi la riforma del Titolo V della Costituzione, una riforma voluta e varata dal centro-sinistra nel tentativo di contrastare l’allora crescente consenso verso le sollecitazioni federaliste della Lega. Una riforma che non solo ha ampliato l’autonomia, ma ha previsto anche la sciagurata elencazione di una serie di materie con competenza “concorrente” tra Stato e Regioni: risultato, una lunga catena di contenziosi alla Corte costituzionale.
Ma gli ultimi anni sono stati il punto di massima deriva per le istituzioni regionali: al Sud per gli sprechi e le inefficienze soprattutto nella sanità, al Nord per un gigantismo faraonico come dimostrano il grattacielo della Lombardia e quello, in costruzione, del Piemonte. Quest’ultimo avrà 41 piani, quello lombardo “solo” 39. Con la logica effimera che più si è grandi, più si risparmia. “Con il nuovo grattacielo – spiegano a Torino – saranno ridotti del 25% i costi di gestione e gli affitti degli uffici”: ma c’è da chiedersi perché Regioni come il Piemonte e la Lombardia, che pur sono tra le più efficienti, debbano avere ciascuna quasi tremila dipendenti e, ovviamente, altrettanti uffici. E non consola il fatto che la Regione Sicilia di dipendenti ne abbia diciottomila.
Se a tutto questo si aggiungono i privilegi dei consiglieri, le spese fuori controllo dei gruppi politici, le elezioni teleguidate di igieniste dentali e di figli dei potenti, le nomine con rigide lottizzazioni politiche, possiamo dire che le Regioni non godono (per colpa loro) di buona immagine tanto da sollecitare non tanto consenso, quanto almeno partecipazione.
Il dramma è che questa politica sta consumando se stessa, come il tempo (Chronos) che nella mitologia greca divora tutte le cose che ha creato. Non è un bel segnale quello che è venuto da Emilia-Romagna e Calabria.
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