Questo è il primo di tre articoli dedicati al tema della fiducia, argomento a mio parere cruciale per una trasformazione degli stili di vita e, con essi, delle relazioni sociali. Le successive due «puntate» saranno dedicate alla fiducia negli altri e alla fiducia in Dio. La sequenza ha un ordine fondativo: la fiducia negli altri non può darsi se non è sostenuta dalla fiducia in se stessi; e la fiducia in Dio, che è totalmente altro dalla fede, può esservi riposta solo per il tramite della fiducia in altri che ci testimoniano la loro fiducia in Dio.
Molti malintesi e molte pericolose linee di fuga circondano la fiducia in se stessi e ne determinano una condizione patologica. La nostra epoca è piena di guru e di altri ciarlatani (autodefinitisi un po’ abusivamente come counselors, come psicologi o persino come maestri di saggezza) che pretendono di insegnare ad avere fiducia in se stessi. Il loro successo editoriale e la loro presenza mediatica e nel management aziendale sono spesso enormi: secondi solo agli spacciatori dell’ultima dieta salutista.
L’autostima, che non ne è l’equivalente, l’amore di sé o, peggio, l’amor proprio sono oggetto di una procedura parapsicologica tanto inquietante quanto rivelatrice, il cosiddetto training autogeno. L’autoincitamento e l’esaltazione della propria forza di volontà sono spacciati come un toccasana che metterebbe a disposizione qualunque obiettivo. Freud avrebbe parlato di «delirio di onnipotenza». Potremmo essere in presenza di una sindrome paranoide di massa.
Tutto questo è un segno della disfunzionalità di un’epoca – la nostra – nella quale l’ipertrofia della fiducia in sé compensa e surroga l’atrofia della fiducia negli altri, la sfiducia e la diffidenza generalizzate. Il mercato dei venditori di autostima, a sua volta, può prosperare solo perché nasconde un deficit – molto ampio e non certo «di nicchia» – della fiducia in se stessi. Viviamo in quella che è stata definita la «società della sfiducia», causata da un eccesso di concorrenza, di competizione fraintesa e soprattutto da un eccesso di insicurezza, oscura o manifesta che sia. Non è difficile immaginare come la scarsa fiducia in se stessi vada puntellata con dei doping psicologici, apparentemente mirati alla singola persona.
Il pensiero filosofico non può curare gli aspetti patologici e patogeni delle idee correnti. Ma può additare una riflessione che rimetta i concetti al loro giusto posto, e restituisca alle parole il loro effettivo significato.
In ciascuna delle prospettive di questi tre articoli, la fiducia è una relazione di reciprocità che presenta una peculiare asimmetricità, perché non posso sapere a priori se la fiducia che ho riposto, persino in me stesso, sarà corrisposta in tutto, in parte o «tradita». La fiducia in sé nasce grazie alla fiducia degli altri e alla fiducia negli altri, così come, reciprocamente, la fiducia degli altri e quella negli altri nascono dalla fiducia in sé. Qualcosa di simile varrà anche per la fiducia in Dio.
Questa relazione biunivoca ha un nome: affidabilità. La fiducia si merita e si conquista proprio a partire da una ben riposta e sana fiducia in se stessi. Se ometto la relazione con gli altri e mi fido solo di me stesso, entro in un’ottica deformante, che mi allontana dal contatto con la realtà fino a condurmi ad un disconoscimento non tanto e soltanto degli altri, quanto e soprattutto di me stesso. Non incontrando limiti, l’io si ammala di egotismo, e infine naufraga, quantomeno esistenzialmente anche se può conseguire qualcuno degli appaganti parametri esteriori del cosiddetto «successo».
Affidabilità è il poter confidare in qualcuno che ha dato prova di esserlo. La fiducia in se stessi è dunque la fiducia nella propria affidabilità, certificata da un numero sufficiente di prove e dall’apprendimento diretto che ne è seguito. La propria affidabilità presso gli altri è, in altre parole, la condizione perché possa affidarmi a me stesso, contando con convinzione sulle mie risorse e sulla mia esperienza.
Due sono le alternative ad una fiducia in se stessi non conquistata attraverso la fiducia degli altri e negli altri: la paura, che paralizza, e l’audacia, che esalta ed espone all’azzardo. La relazione con gli altri ci addestra a contenerci, a conoscere via via i nostri limiti e a dotare il nostro io di alcune protesi sociali – la mutualità, la cooperazione, il dialogo, l’aiuto gratuito e la confidenza – come mezzi per superarli. Proprio queste protesi sono la terapia migliore per vincere la paura, con i suoi fantasmi, e l’audacia, con i suoi deliri.
La fiducia in se stessi è dunque condizione ed esito della convivenza entro la rete di relazioni che nel corso del tempo accompagnano la nostra vita e la nostra perpetua formazione: la famiglia, il gioco, gli studi, le amicizie, gli amori, il lavoro, la genitorialità, l’invecchiamento, la pensione e il prepararsi a morire. Ogni rappresentazione atomistica dell’essere umano – il grande sociologo Norbert Elias parla di «homo clausus» – è non solo la negazione della fiducia in se stessi, ma l’anticamera della paura, degli egoismi più ciechi e smisurati, del mutismo davanti all’autenticità della parola, o della frantumazione in gruppi dove la complicità e la sopraffazione sostituiscono la mutualità e la cooperazione.
L’homo clausus è però l’immagine dominante che la vita sociale ci rinvia: o lo è almeno nella sfera economica, acquisitiva e professionale. Tre ambiti che hanno acquisito una tale pervasività, con i loro deformanti modelli, da contagiare ogni altra sfera, inclusa la più importante, quella affettiva.
Rieducarsi a tornare a una fiducia in se stessi di tipo relazionale è, in conclusione, una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per trasformare i nostri modi di vivere o almeno per contenerne le patologie, e per assicurarci, mediante la fiducia negli altri, i beni più elementari e salutari di cui abbiamo tutti bisogno e che non hanno costi: affetti, comprensione, confidenza, aiuto, rispetto e serenità.
You must be logged in to post a comment Login