Il gusto di andare a fare shopping è stato inculcato in noi italiani qualche decennio fa. In modo più brutale, meno “chic”, ma più efficace potremmo definirlo invece “il gusto di andare a spendacciare”. Comunque detto in inglese o in bosino il risultato è lo stesso: una spinta al consumismo con il pericolo di buttar denaro in acquisti superflui; magari affascinanti, ma frequentemente non necessari, talvolta doppioni di cose che non ricordiamo di avere.
Poi è arrivata la crisi. Ci hanno predicato, oramai poco più di un lustro fa, di cambiare stile di vita, d’essere più morigerati e attenti nello spendere. Necessità questa in chi oramai ha poco denaro, ma messa in atto anche da chi ha possibilità maggiori.
Con una certa insistenza è ora è messo in circolazione il termine “deflazione”. Si spende meno e il prezzo dei beni, quelli utili e necessari, quelli inutili e superflui, diminuisce. Si fatica a capire: ma per la crisi non dovevamo essere morigerati altrimenti si andava male? Adesso invece si deve spendere perché altrimenti la deflazione fa aumentare la crisi?
Per molti articoli il discorso è questo, tranne che per i carburanti: diminuisce il prezzo del petrolio, materia prima, ma i prodotti derivati da lui sono sempre “cari come il fuoco”. Si dice così perché sono prodotti che s’incendiano facilmente? S’incendiano tanto facilmente che per il loro controllo gli uomini si ammazzano tra di loro in modo gagliardo, quasi allegramente?
Ma torniamo allo “spendacciare”. È un’attività che vuole due protagonisti: il Pantalone di goldoniana memoria e il commerciante il bottegaio, come lo definiva il prof d’italiano del liceo, d’origine non varesina, che voleva atteggiarsi sopra le righe dei bosini.
Il gusto (chiamiamolo ancora così) di spendere deve essere alimentato, coccolato, acculturato (addirittura) dal gusto di saper vendere. Pantalone brontolone che si sente sfruttato deve essere ripagato dall’arte, dallo stile di chi gli cambia il denaro in oggetti, sia di necessità sia superflui, regalandogli l’impressione di essere difeso, di trarre vantaggio da ciò che compra, di essere assolutamente protetto e quasi circondato da affetto, senz’altro da amicizia. Anche al bar la schiuma del cappuccino deve avere la macchia del caffè sulla schiuma lattea a forma di cuore … Particolare che la dice lunga sulla gioia di lavorare e vendere del protagonista dell’altra parte del bancone.
Sintetizzando: tra i due protagonisti è importante il contatto umano, che inesorabilmente viene distrutto dalle organizzazioni commerciali odierne che si vogliono freddamente, accanitamente, iperbolicamente arricchire ovviamente sulla pelle del solito Pantalone, negandogli anche l’affetto del contatto umano, che non fa far soldi, non fa più parte del gioco: può essere una spesa inutile. Nei negozi –tutti simili a luminosissimi bianchi cristalli -e ugualmente nei bar, tutti apparentemente asettici- gelidi commessi, molto simili a splendidi replicanti, ti danno la merce con aria di sufficienza.
Dove è andato a finire il “mio” libraio che mi consigliava, che mi suggeriva i libri, l’autore, le idee che lui stesso aveva gustato? Dove i miei due baristi di Corso Matteotti, fratello e sorella, che quasi prima dell’alba ti servivano la brioche fresca di forno e non rianimata dal surgelamento? Dove il mio verduraio “no, ragioniere, quell’insalata lì per lei non va bene … questa è più fresca, più digeribile …” ? E il mio giocattolaio che mi teneva da parte le felicità dei miei nipotini, ora rubati al mio affetto dai freddi e micidiali tablet spietati concorrenti di dolci colloqui? Dove le calde vetrine inquadrate in legni scolpiti con gli oggetti esposti con gusto e con prezzi ben evidenti? Dove il macellaio che magistralmente taglia con il coltellaccio morbide fettine, e non usa la sibilante affettatrice elettrica, che impedisce di chiacchierare?
Dove, dove, dove sono il contatto umano, l’affetto, l’amicizia. Quando esco da casa devo “andare a caccia” di sorrisi, ormai troppo rari, non più di moda, merce che non rende, che non può essere trasformata in denaro.
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