“Ma tu vedi ‘sti fiji de ‘na mignotta che ce vengono a buttà davanti a ccasa la monnezza”. Così, il giorno successivo, il giornale “Il Messaggero” riferiva nella cronaca di un delitto che avrebbe segnato la storia di quegli anni – l’uccisione di Pier Paolo Pasolini – la testimonianza della donna che, la mattina di domenica 2 novembre 1975, allora come quest’anno sono ricorsi gli stessi giorni della settimana, scoprì all’Idroscalo di Ostia il cadavere di un uomo, massacrato, dilaniato, proprio davanti ai primi muri della piccola abitazione che si stava costruendo in riva al mare.
Il cadavere di Pier Paolo Pasolini – che poche ore più tardi sarebbe stato ufficialmente identificato dall’amico Ninetto Davoli – giaceva a pancia sotto, i capelli rappresi in grumi di sangue, le braccia nascoste e piegate in modo innaturale. La donna l’aveva scambiato per un sacco di immondizia o per la carogna di un animale.
Pier Paolo Pasolini aveva cinquantatré anni: poeta, scrittore, drammaturgo, cineasta. Era, fin dagli anni Cinquanta, uno degli intellettuali più discussi ma anche più lucidi della generazione del secondo dopoguerra. I suoi libri, le sue poesie, i suoi film soprattutto sconvolgevano gli italiani – e non solo – impegnati a realizzare il boom economico; erano come dei massi lanciati ogni volta in stagni gonfi di contrasti e di contraddizioni.
Pasolini – si seppe poi – era stato assassinato da un giovane balordo caricato sulla Giulietta Gt2000 del regista nella zona della stazione Termini e poi portato all’Idroscalo in una notte che sarebbe dovuta essere di torbidi incontri. Le circostanze della morte non sono mai state del tutto chiarite, perché il giovane che s’era voluto accompagnare cambiò più volte versione. Né si sa se il poeta, allora noto anche per certi suoi scritti anticonformisti e dissacranti sul Corriere della Sera – poi riassunti nella raccolta “Scritti corsari” – era stato ucciso in una azione d’impeto compiuta da una o più persone o era stato vittima di un complotto, forse anche di natura politica. Si parlò del rifiuto di una prestazione sessuale hard; il ragazzo, che era minorenne, prese un’asse o un bastone e stordì l’uomo; poi si mise alla guida della Giulietta e passò una, forse due volte sul corpo riverso sulla spiaggia. E si disse anche dell’arrivo precedente di una banda di giovinastri, non si conosce se complici o lì presenti per occasione, che aveva contribuito al pestaggio.
Alle ultime ore di vita di Pier Paolo Pasolini il regista newyorkese figlio di immigrati italiani Abel Ferrara ha dedicato di recente un film “Pasolini”, appunto, uscito nelle sale alcune settimane fa, interpretato da Willelm Dafoe.
Abel Ferrara sposa la tesi dell’assassinio compito da più persone. Ma non è questo il punto, anche se su quelle vicende rimaste oscure sono stati scritti libri e sono seguite molte polemiche. La teoria del complotto, per esempio, non è stata da molti condivisa, neanche da amici dello scrittore.
Dal film – almeno così si deve presumere – sarebbe dovuta uscire a tutto tondo la figura di un personaggio sì controverso ma di enorme peso nel mondo intellettuale di quegli anni. Se questo era il disegno, crediamo che Ferrara, che pure è stato ed è regista interessante e trasgressivo (famosa la sua “Trilogia del Peccato”: Il cattivo tenente – 1992; Occhi di serpente – 1993; The addiction – 1995) non vi è riuscito. Il film appare confuso, limitato dai flash back e dalla parziale ricostruzione di un ipotetico e nuovo “Uccellacci, uccellini” con Davoli nella parte che era stata di Totò e Riccardo Scamarcio in quella di Davoli; a tratti un film anche caricaturale.
Soprattutto nel film di Ferrara, che come detto benché di origini italiane è regista americano, non esce l’affresco, il clima, l’aria della metà degli anni Settanta in Italia, e nemmeno dei convulsi periodi precedenti. Il suo diventa un esercizio retorico, intellettualistico più che intellettuale, probabilmente anche condizionato dal modo di vita di Pasolini stesso. Pasolini invece, che vi viveva in mezzo, di quegli anni foschi – e che sarebbero diventati di lì a breve anche più bui e pericolosi – era stato profeta, analista, e anche cantore.
Lo scrittore varesino Piero Chiara, elzevirista del Corriere della Sera, commentò la morte di Pier Paolo Pasolini paragonandola alla fine misteriosa e disordinata dello storico dell’arte tedesco Johan J. Winckelmann assassinato a Trieste, nella seconda metà del Settecento, da un giovane cuoco. Era il prezzo – scrisse in sostanza Chiara – che talvolta in modo consapevole si paga per soddisfare il piacere di Sodoma.
In effetti, Pier Paolo Pasolini traeva in quell’oscura Italia di periferie degradate e di personaggi sconnessi linfa vitale per le sue opere, i romanzi, il cinema, la poesia (Ragazzi di vita, Una vita violenta… Accattone e Il Vangelo secondo Matteo). Di più, la viveva appieno, più che interpretarla, cercando di coniugare le prospettive di una sinistra progressista e di una destra piccolo borghese con un cattolicesimo non reazionario o controriformista ma calato nella cultura e nella tradizione.
Il sesso, i soldi, la miseria e la disperazione erano un tutt’uno nell’humus italiano e, in un certo senso nell’opera e nella condizione pasoliniana. Memorabili alcuni versi di una sua poesia – Vanno verso le Terme di Caracalla –: “Vanno verso le Terme di Caracalla / giovani amici, a cavalcioni / di Rumi o Ducati, con maschile / pudore e maschile impudicizia, / nelle pieghe calde dei calzoni… / Sesso, consolazione della miseria! / La puttana è una regina, il suo trono / è un rudere, la sua terra un pezzo / di merdoso prato, il suo scettro / una borsetta di vernice rossa: / abbaia nella notte, sporca e feroce / come un’antica madre: difende / il suo possesso e la sua vita…”.
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