La storia è maestra di vita anche per quanto riguarda le complesse vicende del sacramento della confessione lungo i secoli. Essa ci aiuta a discernere ciò che è essenziale da ciò che è secondario.
La Chiesa dei primi secoli, riservando la solenne riconciliazione per pochi e gravissimi peccati, ha evidenziato le molteplici vie del perdono, che sono ricordate anche nel “Catechismo della Chiesa Cattolica”: La conversione si realizza nella vita quotidiana attraverso gesti di riconciliazione, la sollecitudine per i poveri, l’esercizio e la difesa della giustizia e del diritto, attraverso la confessione delle colpe ai fratelli, la correzione fraterna, la revisione di vita, l’esame di coscienza, la direzione spirituale, l’accettazione delle sofferenze, la perseveranza nella persecuzione a causa della giustizia (n.1435).
Come nella storia della Chiesa, anche oggi queste vie restano valide per concretizzare la propria conversione ed ottenere il perdono dei peccati non gravi e per non ridurre la confessione sacramentale ad un meccanismo automatico, senza responsabilità personale.
Nel sacramento della penitenza ci sono più “confessioni”: quella del proprio peccato, ma anche – e soprattutto – quella che riconosce con immensa riconoscenza la misericordia di Dio. È la riflessione di Enzo Bianchi: “Venerare la croce non significa adorare uno strumento di morte quale essa è, ma porsi al cospetto del mistero di amore che sulla croce si è manifestato e riconoscere che l’amore del Padre che ha donato il Figlio per la vita del mondo e l’amore del Figlio che ha consegnato se stesso per gli uomini, è ciò che opera la redenzione e la salvezza”.
La nostra dignità è quella di essere dei peccatori che sono stati perdonati, anzi dei condannati che sono stati graziati. Lo esprime chiaramente questa moderna preghiera del penitente: “Padre buono, ho bisogno di te, conto su di te per esistere e per vivere. Nel tuo Figlio Gesù mi hai guardato ed amato. Io non ho avuto il coraggio di lasciare tutto e di seguirti ed il mio cuore si è riempito di tristezza, ma tu sei più forte del mio peccato. Credo nella tua potenza sulla mia vita, credo nella tua capacità di salvarmi così come sono adesso. Ricordati di me. Perdonami!”.
La riforma liturgica del Vaticano II, ponendo l’atto penitenziale per tutta l’assemblea all’inizio della Messa, non solo ha ricuperato una prassi già attestata nei primi secoli dell’era cristiana, ma ha dato un prezioso strumento rituale per esprimere ed alimentare quell’atteggiamento interiore che è fondamentale per entrare veramente in comunione con l’invisibile e lasciarsi purificare dalla Parola di Dio.
La prassi medievale detta “tariffata” (i libri penitenziali elencavano le penitenze da infliggere in base ai peccati confessati) ha condotto a trasformare la celebrazione della misericordia in un atto giudiziario.
Per capire come le cose siano cambiate molto, basta guardare alla formula della assoluzione, che è una preghiera ampia, di carattere trinitario, pronunciata con l’imposizione delle mani, e che ha al primo posto l’azione dello Spirito Santo, che non solo perdona i peccati, ma anche cambia il cuore. Il sacerdote che la pronuncia non è il padrone del perdono, ma soltanto il servo.
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