Alla base dell’allontanamento o della disaffezione di molti rispetto al sacramento della Penitenza c’è la preferenza per una “soluzione privata” del cammino di riconciliazione: Me la vedo da solo con Dio – dice qualcuno, senza polemica. – Se Lui perdona chi è sinceramente pentito, basta il mio “atto di dolore” ben fatto….
La scelta autoreferenziale è la cartina di tornasole della mancanza del senso della Chiesa, che è il contesto entro cui vanno collocati e celebrati tutti i sacramenti. La concentrazione in una sola persona della duplice rappresentatività di Cristo e della Chiesa finisce quindi col renderla difficilmente riconoscibile e allora si preferisce radicalizzare l’esperienza della misericordia di Dio in un solitario momento di preghiera.
La celebrazione comunitaria della Penitenza è il contesto opportuno per l’amministrazione del Sacramento. Emblematica a tale proposito è stata la celebrazione penitenziale “ecclesiale” della GMG di Roma nel 2000.
Duecento giovani del “Servizio Confessioni” hanno rappresentato in modo plastico la Chiesa, davanti alla quale si confessa la fede nella salvezza operata da Cristo nella propria vita, dalla quale proviene l’invito costante alla conversione del cuore e nella quale si sperimenta la gioia della comunione ritrovata. È importante anche questa ministerialità fatta di accoglienza calorosa dei penitenti, accompagnamento (personale o di gruppo) per la preparazione, ad esempio attraverso la lettura della Parola di Dio come aiuto per l’esame di coscienza, e poi la condivisione della gioia con chi si è riconciliato, per ringraziare insieme per la vita nuova ricevuta.
Pur conservando la discrezione necessaria all’intimità del gesto personale, è significativo celebrare il sacramento in un luogo visibile a tutti, a sottolineare la partecipazione e il sostegno di tutta la Chiesa all’evento.
D’altra parte è evidente che l’affermazione dell’universale chiamata alla santità deve potersi declinare in un servizio concreto al singolo credente. La formula della confessione individuale mira appunto a far sperimentare la bellezza dell’incontro personale con l’amore di Cristo.
In un simile contesto è giusto parlare di “festa del perdono”, per ristabilire la prospettiva corretta tra l’idea di dolore/tristezza per il peccato e quella di gioia/festa per il perdono (prospettiva spesso totalmente ribaltata).
Sempre ogni liturgia deve parlare a “tutto l’uomo” per essere segno e strumento dell’incontro con Dio; deve veicolare il senso del sacro attraverso la dignità del rito, ma deve anche saper utilizzare parole e gesti capaci di coinvolgere la relazionalità e la corporeità. Gli abiti liturgici appropriati, l’imposizione delle mani sul capo del penitente, una nuova preghiera penitenziale hanno fatto diventare quel “gesto” un momento forte di evangelizzazione e di annuncio degli aspetti fondamentali del mistero celebrato. Anche i sorrisi, gli abbracci, gli incoraggiamenti di giovani e sacerdoti assieme – tutti spontanei! – hanno saputo togliere dall’isolamento caratteristico del peccato tutti coloro che si sono accostati alla misericordia di Dio e, in tanti casi, la gioia fino alle lacrime era il segno tangibile che qualcosa (o Qualcuno) aveva effettivamente toccato il cuore!
Per quanto quei gesti siano stati unici (e forse irripetibili) sono una provocazione utile da raccogliere e… da imitare, per quanto si può.
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