È un Monte Sacro e quindi esige un rispetto intelligente ed attento.
Così scriveva nel 1982 monsignor Pasquale Macchi a proposito della montagna varesina, il nostro caro Sacro Monte di sempre, da tempo anche patrimonio dell’Unesco.
Il monsignore, già segretario di Paolo VI, si rivolgeva con l’affetto e la severità che ne connotavano il paterno ma deciso carattere, ai lettori della guida di Silvano Colombo “Conoscere il Sacro Monte”, promossa dall’Associazione degli Amici dei Musei Civici Varesini ed edita da Lativa. In particolare la sua parola si indirizzava ai giovani che devono raccogliere con affetto questo patrimonio prezioso a noi tramandato dai nostri antenati.
Perché, si domandava Macchi in quelle note di presentazione, hanno affidato a me il compito di introdurre questa guida al sacro Monte? Perché - si rispondeva colui che era stato devoto segretario di papa Montini – da poco più di un anno sono Arciprete del Sacro Monte, cioè sono il custode della Santa Montagna. È un incarico di grande onore per me, ma è anche dovere di grande responsabilità. Il Sacro Monte è uno dei tesori, ma dir tesoro è dir poco, è il luogo più significativo per natura, arte, storia e religione della città di Varese.
E, novello padre Aguggiari, illustrava i grandi e illuminati progetti in corso. Noi siamo ora impegnati a restaurare tutto il Sacro Monte: il Santuario, le quattordici cappelle, i tre archi, le tre fontane, la Chiesa che precede il viale delle Cappelle. Siamo anche impegnati a dare alla Comunità che abita il Sacro Monte la possibilità di vivere come si conviene in questo secolo. É una impresa che richiede la collaborazione di tutti. Il monsignore elogiava la guida di Colombo, che riteneva ottima perché mentre le guide mancano talora d’ anima, il professor Colombo vi ha messo intelligenza e cuore. E mentre invitava il lettore ad affidarsi a quelle pagine, ammoniva a farne una giusta lettura, a non sottovalutare il senso di quell’unicum di sacro, di affetto, di cultura e bellezza, che la montagna varesina racchiude nel suo antico cuore: si tratta di scoprire il Sacro Monte, cioè non basta conoscere solo il Santuario o questa o quest’ altra cappella, questo o quell’ altro aspetto: il Sacro Monte è tutt’uno, bisogna conoscerlo tutto per apprezzarlo e lasciarsi conquistare.
La caratteristica di unicità e totalità, di sacralità e tanto altro ancora della montagna varesina, sottolineata da Macchi, è ripresa e spiegata in altre pagine di quella guida, ancora attualissimo strumento, dallo stesso Colombo. Mentre inquadra il Monte Tre Croci, vero faro del turismo nazionale e internazionale per decenni, già allora e ancora oggi ridotto purtroppo all’abbandono e all’oltraggio delle tante antenne televisive, l’autore invita ad alzare lo sguardo verso il Sacro Monte e la sua morale supremazia: Accanto a quella montagna profanata sta il Sacro Monte, da più di tre secoli meta di pellegrinaggi, fino ai primi del novecento unico richiamo spirituale della mercantile terra varesina. Il suo titolo - prosegue – è Santa Maria del Monte, un comune a sé stante fino a quando Varese non divenne capoluogo di Provincia, e cioè nel 1927, oggi assorbito in quello della città, dalla quale vuole tuttavia distinguersi perchė oltre a starsene sulle sue, in alto, ha un suo codice postale:21030 diverso dal 21100 di Varese. Dunque: una cosa è dire: Santa Maria del Monte o, come dicevano i milanesi, la Madonna del Monte; altro è invece dire il Sacro Monte, perché, così dicendo, s’intende tutta quella Montagna sulla quale è ben disposto il borgo di Santa Maria.
Di questo giusto orgoglio sacromontino, è dunque buona regola serbare rispetto e memoria. Un rispetto che forse non è più applicato da tempo, considerata la sofferenza e incuria riservata alla nostra montagna. Che se vogliamo davvero considerare come nostra, come tale dobbiamo di nuovo imparare ad amare, a prendercene cura nel modo giusto, senza volerla violentare o ferire o plasmare a seconda dei nostri comodi di visitatori distratti o irriguardosi, o peggio, di pianificatori di progetti inopportuni, inadeguati alla sacralità del sito, alla sua incorruttibile natura e bellezza d’insieme.
Raccontano le carte del notaio Dralli, il notaio del progetto della Fabbrica del Rosario messo in moto da Padre Aguggiari, dei tanti avvisi d’appalto (cosiddette cedole) esposti sui mercati di Varese, ma anche di Como e di Lugano. E di come il Dralli, a confronto poi coi concorrenti, cercasse di spuntare il miglior prezzo per le casse della Fabbrica, avendo al contempo la certezza di poter contare su di un lavoro ben fatto. I cui frutti durano ormai da quasi quattro secoli.
E, si racconta anche nella guida di Colombo, come il devoto Bernasconi, l’architetto della fabbrica, avesse lavorato probabilmente ricevendo compensi solo per l’altra vita, mentre le maestranze della fabbrica ebbero puntualmente la dovuta remunerazione. Perché nessuna pietra, nessun muretto, nessuna statua fu posta su quel monte senza una traccia documentaria…
Chi ha stampato ed esposto il “goliardico” cartello “50.000 cittadini dicono sì” riferendosi alla vexata quaestio della costruzione di un parcheggio alla Prima Cappella e alla opposizione del comitato dei no e delle settemila firme raccolte, farebbe bene a riflettere sul significato di quell’antica storia. E di quella cosa miracolosa nata sì, come ci hanno raccontato i cronisti del tempo, da moto di fede, ma realizzatasi, come sottolinea Silvano Colombo nel suo citato lavoro, nel più schietto ed attento rispetto delle norme di una società certamente più civile dell’odierna, che ha lasciato monumenti, cioè segni destinati ad ammonire chi li osserva dei valori che animavano non solo poche persone di rango, ma tutto un popolo di cristiani.
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