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Cultura

ADAMO SMITH TRA SCIENZA E MORALE

LIVIO GHIRINGHELLI - 17/10/2014

smithDi Adamo Smith (1733-1790) si ricorda soprattutto il principio: gli individui impegnati a conseguire vantaggi personali, pur mirando esclusivamente al proprio guadagno, possono incrementare, non intenzionalmente, il benessere pubblico, cioè il concetto di mano invisibile, e per citazione diretta: “Ogni individuo è al proprio vantaggio che mira e non a quello della società ed è condotto da una mano invisibile, in questo come in altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni” (Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni; opera dalla gestazione particolarmente lunga e laboriosa, conclusa nel 1776, detta la Bibbia del capitalismo).

Di qui l’idea di un progresso senza limiti da perseguire nel quadro di un’economia libera ed espansiva (concezione che risente tipicamente dell’Illuminismo), di un mercato fatto libero di agire e di regolarsi da sé, con la necessità di ridimensionare in maniera drastica il ruolo dello Stato in materia. Anche perché il mercato, ispirato al laissez-faire, è un organismo che tende intrinsecamente alla stabilità. Per Smith tuttavia – va sottolineata come fondamentale l’osservazione – questo è un sistema tutt’altro che insensibile e indifferente ai problemi sociali ed esterno alle relazioni morali.

Aveva sottolineato nella “Teoria dei sentimenti morali “ (1759) che “nella corsa alla ricchezza, agli onori e all’ascesa sociale, ognuno può correre con tutte le proprie forze per superare tutti gli altri concorrenti, ma se si facesse strada a gomitate o spingesse per terra uno dei suoi avversari, l’indulgenza degli spettatori avrebbe termine del tutto”. La società non può sussistere tra coloro che sono sempre pronti a danneggiarsi e a farsi torto l’un l’altro. Nessuna società può essere felice, se la sua maggior parte è povera e miserabile. I vantaggi di un gruppo sociale non devono essere conseguiti a scapito e danno degli altri gruppi. È facilmente constatabile che il perseguire il proprio interesse costituisce un movente potente dell’agire economico, ma quando degenerasse in mero e cieco egoismo con pregiudizio della giustizia, prevarrebbe la pulsione al conflitto e all’offesa, con esiti distruttivi per il consorzio sociale. L’individuo comunque valuta meglio il proprio interesse rispetto a un legislatore, che volesse orientare gli individui nell’impiego dei loro capitali. Lo Stato non ha né la saggezza né la conoscenza adeguate per decidere quali attività risultino più conformi all’interesse generale, si astenga quindi dal governare i processi economici.

Nato a Kirkaldy presso Edimburgo da famiglia agiata, ancora piccolo eccelle nel campo del greco e della matematica; si laurea a 17 anni all’Università di Glasgow, dove rimane affascinato dalle lezioni del filosofo morale Francis Hutcheson. Pare dapprima destinato alla carriera nella Chiesa episcopale scozzese, ma lo attraggono maggiormente la letteratura e la filosofia. Stringe rapporti d’amicizia con David Hume, interessato a introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali, superando la ricerca di cause ultime nell’analisi dei fenomeni mentali. Nel 1751 ottiene la cattedra di logica a Glasgow e nel 1752 quella di filosofia morale, che deterrà sino al 1763. Nel 1764 si trasferisce in Svizzera e quindi a Parigi con il giovane duca di Bucchleuch (di cui è tutore) e qui entra in contatto coi philosophes (Voltaire, D’Alembert) e con gli economisti Quesnay e Turgot. Tornato a Londra gli si aprono le porte della Royal Society, la maggiore accademia scientifica inglese. Divenuto commissario alle dogane scozzesi, mantiene tale ufficio sino alla morte.

Smith comincia la sua attività scientifica con la giovanile “Storia dell’astronomia”, conducendovi l’analisi dei concetti di sorpresa e meraviglia; esamina il succedersi dei sistemi scientifico-filosofici nella storia non in base al criterio della veridicità, ma alla capacità di placare l’immaginazione, conferendo alla natura un aspetto coerente, nella ricerca di principi connettivi sempre più efficaci e universali. Nella “Teoria dei sentimenti morali” Smith si concentra sul processo di immedesimazione simpatetica, che si presenta come uno strumento atto a formulare giudizi di approvazione o disapprovazione, nella ricerca di una dimensione condivisa dell’esperienza morale. Nel processo di autovalutazione è necessario anche guardarsi con gli occhi di uno spettatore imparziale, antidoto contro l’autoinganno.

 In economia per Smith il prezzo reale di una merce consiste nel lavoro che essa comanda e quindi il lavoro è la misura reale del valore di scambio di tutte le merci. Solo nello stadio primitivo però i beni si scambiavano in rapporto alle quantità di lavoro necessarie a produrli. Con l’emergere dei processi di capitalizzazione il profitto, commisurato alla grandezza del capitale investito e la rendita sono grandezze di valore non correlate al lavoro svolto.

La centralità del lavoro emerge con chiarezza nelle nozioni di lavoro produttivo e improduttivo, che non aggiunge valore né si fissa in oggetti particolari. Nell’ordine naturale delle cose gli investimenti si dovrebbero prima orientare verso i settori più produttivi (agricoltura), poi verso quelli meno produttivi (manifatture e commercio), ma purtroppo quest’ordine nella storia europea è stato invertito a causa delle politiche mercantiliste (concezione della ricchezza come denaro, oro e argento), onde una politica economica erroneamente focalizzata sulla bilancia commerciale. Oro e argento, mutando valore nel tempo e nello spazio, non si possono utilizzare per individuare una misura invariabile del valore.

Merito di Smith è quello di avere messo in luce le principali categorie di interpretazione della società capitalistica (divisione del lavoro, definizione delle classi, rapporto valore-lavoro), ma non è appropriato considerarlo soltanto come punto di riferimento del liberismo moderno (il mercato come unico efficiente meccanismo di ripartizione delle risorse, garanzia del benessere). Ha messo ad esempio in rilievo che la divisione del lavoro è stata sì la causa primaria dell’incremento delle capacità produttive, ma ha pure ridotto il lavoratore a esecutore semplice di operazioni meccaniche spersonalizzandolo, senza occasione e possibilità di applicare intelligenza e capacità inventiva, fenomeno negativo evidente.

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