Sul campo di battaglia tra vecchio e nuovo, tra carta e digitale (per riassumere la questione vista dall’angolo dell’informazione), nella babele di morti, feriti e nuove creature che si avanzano con passo incerto tra le nebbie della crisi, c’è chi ha trovato la sua formula: i vecchi buoni scarponi del giornalismo indipendente sull’impalpabile leggerezza dell’elettronica virtuale. Il risultato si chiama «Mediapart» un quotidiano online, senza pubblicità, senza padroni se non i lettori che pagano per leggere, che al settimo anno di vita ha un risultato economico sempre più positivo: più di un milione di utili.
Tutto questo succede a Parigi, dove la sera del 25 settembre il giornale ha sobriamente festeggiato il centomillesimo abbonato. Un risultato spettacolare, una formula unica che ha ridicolizzato le previsioni dei soliti esperti che ne pronosticavano vita breve e morte certa. Deus ex machina di tutto questo è una vecchia volpe del giornalismo francese, Edwy Plenel, sessantadue anni, formidabile scooppista in gioventù, poi lungamente direttore della redazione di Le Monde. Dal 2008 alla guida di Mediapart con la complicità di altri ex del grande quotidiano parigino: François Bonnet, ora direttore editoriale, Laurent Mauduit, Martine Orange. Le celebrazioni si sono compiute in diretta streaming. Slogan della serata un avventuroso giudizio pronunciato nel 2007 da Alain Minc, presitigiosissimo guru di editoria e finanza: «Credete nella mia esperienza: Mediapart non funzionerà mai, la stampa sulla rete non può essere che gratuita».
E invece. Mediapart è oggi cinquantadue dipendenti (ventisette donne, venticinque uomini), di cui trentasei giornalisti, bilancio 2014 poco meno di 9 milioni di euro con un attivo di 1,3. È il quarto anno che la società è in attivo, nei primi tre anni ha perso i cinque milioni di euro che erano stati raccolti per far partire l’avventura. Centomila abbonati, duecentomila visitatori unici al giorno che sono ormai cifre da grandi giornali, come Le Monde e Figaro i quali però beneficiano di circa 17 milioni di contributi pubblici all’anno, più di Libération (che riceve 9 milioni). Mediapart non ha mai chiesto finanziamenti. E non ha mai avuto pubblicità, come quell’altro campione dell’editoria francese, il Canard Enchaîné, dal 1915 in edicola, erroneamente considerato un giornale satirico, in realtà spietato disvelatore di imbarazzanti retroscena del potere.
Qual è il segreto? Dice Plenel: «Abbiamo scoperto che il virtuale è reale». Che vuol dire almeno due cose. Primo: il mezzo non è il contenuto, il fatto che Mediapart non sia di carta ma esca in digitale non significa che si senta obbligata a seguire la formula di immediatezza, mutevolezza e spesso superficialità dei siti internet. Al contrario, dice Plenel, il digitale permette la valorizzazione, si conserva più della carta, mentre l’ossessione dell’attualità «fa perdere la memoria». Secondo: il digitale consente la partecipazione dei lettori. Mediapart offre spazi per blog, è un club alimentato da centinaia di interventi al giorno, è quello che l’immaginifico Plenel chiama «arcipelago»: un mondo aperto su un criterio di indipendenza totale e radicale e sul quale si vuole costruire una «société citoyenne de presse» vale a dire un’entità che – detta così – sembra sfumare nell’utopia.
Eppure. Ricorda Bonnet che mai si è dubitato che il giornale dovesse essere a pagamento. I gratuiti erano guardati con quella formula liquidatoria con cui li salutò Le Monde al loro apparire: ciò che non costa nulla, non vale nulla. Invece: si può essere indipendenti solo se si è pagati dai propri lettori che devono poter partecipare alla vita del giornale. L’abbonamento mensile costa 9 euro, 90 per un anno. La scelta del mezzo digitale fu una conseguenza di questo programma e non il punto di partenza.
Però dalle intenzioni bisogna poi passare ai fatti perché le buone parole non bastano. E cos’è che fa una giornale? Le notizie. A Mediapart non nascondono che tutta la macchina ha cominciato a prendere velocità nell’estate 2010 con le rivelazioni sull’affaire Bettencourt, l’anziana proprietaria dell’Oréal, una delle più grandi fortune di Francia, plagiata e strumentalizzata – naturalmente – persino dalla politica. A questo sono seguiti scoop clamorosi, come quello che ha portato alle dimissioni di Jérôme Cahuzac, ministro delegato al budget del primo governo varato da Hollande, di cui Mediapart ha rivelato conti segreti in Svizzera e Singapore. Gli scoop sono numerosi: lo scandalo delle Casse di Risparmio, l’affaire Tapie, i sospetti finanziamenti libici alla prima campagna elettorale di Sarkozy, gli intrighi finanziari della destra, le rivelazioni che hanno portato alle dimissioni di Aquilino Morelle consigliere di Hollande all’Eliseo.
Fuoco a destra come a sinistra, accuse e sospetti da destra come da sinistra. Per Hubert Vedrine, uomo di Mitterrand e ministro degli Esteri del governo Jospin, Mediapart pratica un giornalismo «da avvoltoi». Alain Finkielkraut, filosofo e polemista ha detto una volta che «leggere Mediapart fa venire voglia di andare a vivere in un altro pianeta». Plenel, vecchio militante trotzkista e anticolonialista, è personaggio spigoloso, anche urticante, non cerca consensi, esprime un giornalismo radicale e militante. Di fronte alle critiche per l’ossessione dello scoop, dà le sue cifre: cinquantaquattro processi, due perduti per cause minori, ventuno vinti, gli altri in corso, centomila euro di spese legali all’anno. «Per noi fare giornalismo significa prendere sempre posizione, fare inchieste e dare notizie che gli altri non hanno».
Vecchio o nuovo? Detto così sembra semplicemente giornalismo.
Cesare Martinetti
@cesmartinetti www.lastampa.it (per gentile concessione)
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