Quando si vive in un labirinto urbano a cielo aperto bisogna scegliersi dei punti di riferimento se no si rischia di perdersi ogni volta che si mette il piede al di fuori di mura amiche. Ma quando le strade sono cunicoli strettissimi tutti simili e le case tutte con la stessa forma ammassate l’una sull’altra, l’impresa si fa più difficile.
I primi giorni della mia presenza qui a Rio, alla Rocinha, passando all’interno di questi pertugi, mi domandavo come facessero le persone a muoversi con tanta velocità e sicurezza come formichine dentro un grande formicaio. Tutto questo senza tenere conto che prima d’ora l’unico labirinto in cui sono stato è quello di Alice nel Paese delle Meraviglie a Euro-Disney, quando ero un bambino e adesso riesco a perdermi anche in un centro commerciale.
Quindi procediamo per gradi, partendo dal punto di riferimento più facile.
Il primissimo è la famosa “passerella”. È un ponte che si trova all’entrata della favela, creato dall’architetto brasiliano più famoso: Niemeyer. Dicono che abbia la forma di un sedere con il famoso perizoma brasiliano che ci passa in mezzo. E in effetti non hanno tutti i torti.
Dopodiché c’è Super Sucos, all’entrata della Via Apia, la rambla della favela.
Di fronte a questo negozio di succhi naturali mi sono ritrovato la prima notte con lo zainone ad aspettare che mi venissero a recuperare e quindi ci sono affezionato.
In una traversa della via Apia c’è la scuolina Saci sabe tudo che fa parte dei nostri progetti della ong. Ha un cartello che si vede da lontano, dall’inizio della via. Ci ho messo qualche giorno ad azzeccare la traversa giusta, dato che su quel lato le strade sono tutte uguali. Stessa larghezza, stessi fili che penzolano in maniera confusionaria, e tanti negozietti gemelli.
Finita la via Apia si apre la strada principale che attraversa tutta la favela, la percorre fino alla cima della collina e ridiscende per l’altro lato dove c’è il quartiere di Gavea. Uno dei quartieri più ricchi, con l’Università più prestigiosa di Rio e una bella vista sulla parte sud della città. È incredibile come nel giro di una curva cambi totalmente il paesaggio circostante. Favela e ville vivono attaccate l’una appiccicate alle altre.
Ok, ora sono finiti i punti di riferimento facili, immediati. Però per non perdersi e… sopravvivere c’è bisogno di quegli altri, quelli sottili, quelli umani. Punti di riferimento che ti possono aiutare nei momenti di difficoltà.
Vicino alla via Apia c’è una ragazza che lavora in una lanchonete, un baretto che vende cibo tipico brasiliano e pizza. Una pizza così buona che se ne mangi più di due fette la fame viene sostituita da un senso di nausea. Però i primi giorni mi ha sfamato quasi quotidianamente e così adesso quando passo di lì questa ragazza mi saluta in maniera un po’ sarcastica, secondo me.
All’angolo dell’inizio della Rua 4 c’è una discarica a cielo aperto, attaccata a un pollaio e un conseguente macello. L’odore è talmente forte, pestilenziale e nauseabondo che il luogo diviene indimenticabile.
Poi ci sono i riferimenti che incutono un po’ di soggezione: alla fine della via Apia e in altri punti strategici c’è sempre la presenza fissa di poliziotti “pacificatori” in tenuta da assalto. Giubbotti antiproiettili, fucili e zainetti. A metà della Rua 4, proprio davanti all’inizio di una ripida stretta scalinata, ecco una “boca de fumo”, ossia un sito in cui ragazzi, quasi tutti minorenni, vendono varie droghe. A una grande curva, che qui chiamano Curva do S vive Dona Olga, una mamma affettuosa e premurosa che affitta stanze, e un’altra lanchonete dove facevo colazione i primi giorni.
Vicino a casa staziona sempre un signore senza una gamba, senza un piede e senza un braccio, credo divorati dalla lebbra: vende film in cd, musica, scarpe e vestiti usati e chiacchiera amabilmente con un sacco di persone. Si intuisce che è una persona con carisma e personalità, ma finora non mi sono mai fermato a parlare con lui.
Un po’ prima invece abitano due vecchi che trovo sempre fuori di casa. L’uno a petto nudo, magrissimo e con una folta chioma grigiastra sta seduto su alcuni scalini e guarda sempre nel vuoto; l’altro ugualmente a petto nudo ha una presenza totalmente diversa; sembra uscito da un film: collana e orologio d’oro, panza prominente e occhiali da sole ambrati; sempre in piedi, appoggiato con nonchalanche alla ringhiera, osserva chi passa o, secondo me, semplicemente vuole farsi ammirare.
Sotto casa poi c’è l’immancabile Joao, proprietario del baretto. Sorridente, con una di quelle facce da buono che ispirano sicurezza: grande tifoso del Flamengo. Per qualsiasi informazione o dubbio so che posso contare su di lui. Ha preso il posto del mio amico fruttivendolo limeño Alejandro (chissà che cosa starà facendo ora Alejandro; sarei contento se Alejandro a Joao si conoscessero, diventerebbero grandi amici ne sono certo).
Ci sono stati anche punti di riferimento sbagliati, come un negozio di parrucchiera e manicure: nella favela ce ne sono duecentomila, uno per ogni abitante quasi, perciò mi confondo ogni tre per due. Un venditore di açaì (un frutto tropicale molto nutriente) ha deciso di cambiare l’ubicazione della sua bancarella ogni giorno mandandomi nel pallone. Perché era uno dei miei punti preferiti.
Una domenica mattina, tornando a casa all’alba, camminando per Barrio Barcelos, dove alcuni commercianti stavano già allestendo le bancarelle per il mercato, nella rara tranquillità che avvolgeva la favela ho aiutato un uomo a scaricare delle casse da un camion. E lì ho pensato, per la prima volta, che forse cominciavo a non avere più bisogno di punti di riferimento per muovermi all’interno della favela più grande dell’America Latina.
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