Un autentico capolavoro. Non si può definire in altri termini questo maestoso romanzo della scrittrice americana Donna Tartt, vincitore del premio Pulitzer 2014. Si tratta di quasi un migliaio di pagine di narrativa pura, di sentimento, di amore, di storie di vite che si intrecciano, di colpi di scena, di bugie, di mezze verità e di morte.
Improvvisa, precoce, acerba, come già avevamo imparato a conoscerla in “Dio di illusioni” (o The secret History, dedicato a Bret Easton Ellis) con il suicidio di Camilla, in un grande romanzo, il suo, di esordio e di consacrazione, che l’aveva ammantata di quel mistero che solo i grandi romanzieri hanno. È riuscita anche stavolta a stupirci e forse con una maturità che ora le riconosce il mondo intero, un successo di critica e di pubblico.
Sembra nutrito di grandi romanzi ottocenteschi eppure c’è, consolidata, una capacità quasi cinematografica, moderna e classica, nel dipingere le storie, nel loro intarsio. E si tratta di un capolavoro, il Cardellino di quel Carel Fabritius anch’egli morto giovane, che diventa l’Angelica ariostesca di tutto il romanzo, tela oggetto e metafora del protagonista, io narrante. Il cardellino incatenato scampato a un incendio, la preziosa tela che non si trova più all’indomani dell’esplosione in un museo nel cuore di New York, uscito dalla porta sul retro insieme a Theo, il ragazzino che impariamo a conoscere e ad esplorare, che diventa una parte di noi, troviamo, inevitabilmente, in lui i nostri sogni, le nostre paure, le nostre debolezze. E l’arte diventa il primum mobile della vita stessa, fino all’idolatria. Ma “Tenere troppo alle cose può distruggerti. Solo – se tieni abbastanza a un oggetto, esso acquista una vita propria, o no? E non è questo il punto fondamentale delle cose – delle cose belle –, il fatto che ti mettono in contatto con una bellezza superiore? Quelle prime immagini che ti spalancano il cuore e tu spendi il resto della vita a inseguirle o a tentare di ricatturarle, in un modo o nell’altro?”.
In tempi di “riproducibilità tecnica” dell’arte come i nostri, questo romanzo di formazione (ma senza il corollario retorico) ci riporta alla mente gli attimi spesi di fronte a un capolavoro, alla nostro quadro preferito e, contemporaneamente, gli ultimi attimi in compagnia della persona amata con il doloroso corredo dei “se”, incatenati al passato. “Fotografie sul muro, un calzino arrotolato sotto il divano. Il momento in cui ho allungato la mano per toglierle qualcosa dai capelli e lei ha riso e si è scostata per evitare il mio tocco. E così come la musica è lo spazio tra le note, così come le stelle sono belle per il vuoto che le separa, così come il sole colpisce le gocce di pioggia da una certa angolazione e proietta un prisma di colori attraverso il cielo – allo stesso modo lo spazio in cui io esisto, e voglio continuare a esistere, e a essere franchi in cui spero di morire, è la zona di mezzo: dove la disperazione si è scontrata con la pura alterità e ha creato qualcosa di sublime.”
Il cardellino è straordinario non solo perché fa soffrire (“cullarci fino a uscire dalla disperazione”), ma perché incentrato sul destino e sugli strani ghirigori che compie “questo sublime mescolato al disastro, il lecca-lecca alla morfina che avevo inseguito per tutti quegli anni”. E “mentre ci eleviamo al di sopra dell’organico solo per tornare vergognosamente a sprofondarvi, è un onore e un privilegio amare ciò che la Morte non tocca”, la misteriosa scrittrice di Greenwood, Mississipi, sembra dedicare questo capolavoro a chi ha amato le cose belle e se ne è preso cura.
You must be logged in to post a comment Login