Non siamo per niente persuasi che papa Roncalli possa essere stato un papa di sinistra – nonostante si cerchi di accreditarlo –, e il nostro convincimento non è un atto di fede perché si basa su fatti, episodi e dati verificabili, alla portata di tutti quelli che non abbiano delle tesi precostituite da dover dimostrare ad ogni costo, anche perché basandosi soltanto su delle supposizioni si potrebbe sostenere anche il contrario, cioè che Roncalli fosse di destra.
Infatti, come Patriarca di Venezia, nel celebrare il venticinquesimo anniversario dei Patti Lateranensi, l’11 febbraio del 1954 (appena nove anni dopo la guerra…), il cardinale Roncalli fece riferimento al principale artefice di quel patto, Benito Mussolini, definendolo con sentimenti di accorata e rispettosa pietà semplicemente un uomo che è “ …diventato motivo di grande tristezza per il popolo italiano”. O quando, in occasione delle elezioni comunali tenutesi il 1956 nella città lagunare, avvertì i fedeli che “ …il cattolico non può assolutamente dare il suo voto a quelle liste che rappresentano l’opposizione netta e decisa alla dottrina cristiana […] Quelle dei comunisti e di quella parte di socialisti, ben qualificata in Italia, che gli tiene bordone».
In tali parole dovremmo forse vedere un riconoscimento della politica fascista o l’esortazione a votare esclusivamente per la Democrazia Cristiana del tempo? O non, invece, il coraggioso rispetto per la storia e un indirizzo ai fedeli diocesani giacché in quel preciso momento storico i comunisti e i socialisti erano i nemici mortali della Chiesa?
Non escludiamo che vi possano essere stati contatti e incontri tra emissari del Cremlino e del Vaticano e ciò non certo per condizionare la assise conciliare che si sarebbe aperta da lì a qualche mese ma, caso mai, per un motivo che i fautori del “patto scellerato” di Metz dimenticano. Stava per scoppiare la più grave crisi politica e militare del dopoguerra tra i due blocchi che reggevano le sorti del mondo, crisi che si acuirà proprio in concomitanza dell’apertura del concilio Vaticano II e fu così che il mondo si trovò sull’orlo di una guerra nucleare che se non scoppierà sarà anche per merito dei “contatti” del papa.
La verità era che Giovanni XXIII non chiudeva la porta del dialogo a nessuno giacché era molto inquieto per le sorti della pace nel mondo e i fatti di Cuba dimostrarono quando fosse fondata tale inquietudine. Esattamente quattro giorni dopo l’apertura del Concilio, gli americani attuarono il blocco navale dell’Isola di Cuba (che si trova ad appena novanta miglia dalle loro coste) dove i sovietici avevano installato in segreto rampe di missili a testata nucleare. La situazione giunse al punto in cui o i sovietici avrebbero smantellato le rampe, o l’America avrebbe occupato Cuba e sarebbe stata la terza guerra mondiale. L’umanità stette per giorni col fiato sospeso temendo una catastrofe nucleare che, per fortuna, non vi sarà perché i russi ritireranno i missili e gli americani interromperanno il blocco navale.
Siccome è da poco che gli archivi della Casa Bianca hanno reso noti i telegrammi con i quali l’ambasciatore a Roma informava il presidente Kennedy degli assidui contatti del papa col leader sovietico, Kruscev, per giungere alla soluzione pacifica della crisi di Cuba, pochi conoscono l’importante parte che vi ebbe papa Giovanni.
Che, poi, egli realmente si fidasse di Kruscev al punto d’intavolare – come ipotizzato da Madiran e da altri – trattative segrete con lui è assolutamente indimostrato, anzi, si dimostra il contrario se andiamo a leggere ciò egli che annotò nel suo diario il 26 dicembre del 1962: “ …questo Kroucheff, o Nikita Khruschecheff, come lui si firma, non ci prepara forse delle sorprese?”. Si fidava talmente poco dei comunisti che, per ricevere in un’udienza, dal grande significato simbolico per la Russia bolscevica, la figlia e il genero di Kruscev il 7 marzo del 1963, Roncalli pretese come gesto di buona volontà la preventiva liberazione da un gulag dell’arcivescovo greco-cattolico ucraino Josif Slipyi e soltanto dopo l’arrivo di questi a Roma sano e salvo ricevette Rada Kruscev e Alexis Adjubei.
Quella di Giovanni XXIII fu sicuramente una politica di apertura non al comunismo ma, semmai, ai cristiani di fede comunista perché il giudizio irrimediabilmente negativo della Chiesa sulle politiche ostili al cristianesimo e, quindi, sul comunismo come ideologia, non era per niente cambiato.
Non serve nascondere che la Chiesa di quegli anni aveva di sé ancora una concezione principesco-rinascimentale e, perciò, molti dei suoi prelati di vertice avversarono l’umile contadino di Sotto il Monte che prometteva di immergerli tutti in un lavacro di umiltà e di ricerca della carità operante. I “nemici” di Roncalli furono più numerosi di quanto non si pensi oggi e i loro tentativi di boicottarne le aperture furono tanti, anche da parte di quell’Osservatore Romano che, allora come oggi, è spesso la voce dell’establishment vaticano più che del papa.
Fu la Chiesa di Roncalli e non quella dei tradizionalisti, però, che darà il via all’Ostpolitik, che bucherà la “cortina di ferro” perché dopo la visita dei congiunti di Kruscev s’instaureranno, lentamente ma progressivamente, accettabili rapporti diplomatici tra la Chiesa e i Paesi dell’orbe comunista. Insomma incominciava a prendere forma sul terreno lo spirito dell’ultima Enciclica, la Pacem in terris, che Giovanni XXIII firmerà pochi giorni prima della sua morte che avverrà il 3 giugno del 1963. Quell’Enciclica era così calata nel secolo che lo scrivente, scherzando ma neppure troppo, l’ha spesso definita la più inaspettata competitrice della nostra Costituzione e per verificare tale asserto basta andare a leggere i titoli di alcuni dei suoi paragrafi: “Soggetti di diritti e di doveri – Struttura e funzionamento dei poteri pubblici – Dovere di promuovere i diritti della persona – Nella libertà – Dovere di partecipare alla vita pubblica – Interdipendenza tra le comunità politiche – Il bene universale e i diritti della persona – Poteri pubblici istituiti di comune accordo e non imposto con la forza – L’ascesa delle comunità politiche in fase di sviluppo economico…”.
Come dire, se c’è consentita un’acre riflessione, che se le forze politiche che sostengono di richiamarsi al cristianesimo avessero fatto propri, nei fatti più che nelle parole, alcuni principi contenuti nella Pacem in terris, forse il nostro Paese non si troverebbe oggi a dover affrontare tutti insieme i problemi che sono stati elusi per anni. Ecco, un papa di tale fatta poteva sicuramente intavolare un dialogo con i comunisti (non con il comunismo…) e con chiunque altro lo avesse aiutato a costruire la pace universale ma da questo ad accusare, come ha fatto il filosofo cattolico francese Jean Madiran, lui e il Concilio Vaticano II di aver ridotto “…il potere del Magistero della Chiesa, favorendo il lassismo generalizzato” ne corre!
La conclusione alla quale siamo giunti, pertanto, è che Madiran, come il suo conterraneo, l’arcivescovo Lefebvre, era un cattolico tradizionalista e, quindi, un fiero avversario delle innovazioni introdotte dal Vaticano II e certamente non un estimatore di chi quel Concilio volle. Giovanni XXIII non fu né di destra, né di sinistra fu semplicemente un papa che sentì su di sé il peso del destino di un mondo che stava rapidamente cambiando e, come aveva profetizzato Malachia, fu il “Pastor et nauta” che ci voleva per una Chiesa che faceva fatica a venir fuori dai marosi ideologici del Novecento, un secolo sicuramente procelloso.
(2 – fine)
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