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Società

LA SBOBBA TELEVISIVA

LUISA NEGRI - 10/10/2014

TalkshowPare che i talk show siano in crisi. Lo dicono i dati audience e lo ammettono i conduttori interessati, in testa Santoro che forse starebbe valutando, lo si sussurra qua e là, di concedersi una pausa.

E intanto piovono sull’argomento pompose analisi e riflessioni di ogni genere.

Più realisticamente si dovrebbe ammettere che qualcuno tra i telespettatori, forse non pochi, nutra ormai una convinzione: ė giunto il tempo di invertire la rotta e mettere sul piatto un cibo più sostanzioso delle sbobbe verbali e indigeste cui ci stavamo assuefacendo.

Se la politica, pappa fondamentale che riempie la bocca dei protagonisti di tavole rotonde e adunate serali televisive, è in forte odore di antipatia – sia per la perdurante crisi economica e finanziaria, sia per la deludente risposta dei suoi rappresentanti, sempre gli stessi, che s’ affollano e s’alternano con scarsa efficacia davanti alla telecamera – non lo è da meno la soffocante presenza di tanti altri ospiti di diversa provenienza. Anche qui solite facce di esperti, analisti, critici vari, scrittori imbonitori per se stessi, opinionisti, criminologi, sindacalisti, imprenditori e avvocati à la page, sondaggisti e, naturalmente, giornalisti. I quali ultimi si caricano a volte anche di un mestiere nel mestiere, sconfinando con martellante presenzialismo dal giornalismo della carta stampata a quello televisivo, per scollinare infine – attenzione perché è di gran moda – verso il teatro.

Forse, sull’onda del meritato successo, provano a seguire le orme del coraggioso Roberto Saviano. I nomi li sappiamo, sono tutti ottime firme del giornalismo, peccato si ostinino a sottolineare questo loro personale impegno ogni volta che li vediamo in TV. Buon ultimo, dopo l’imbronciato, tenebroso Scanzi – un simil Alessio Boni dei poveri – anche il compìto e notoriamente saggio Beppe Severgnini. Che giunto ormai alla boa dell’andropausa, da lui vista sino a ieri in chiave satirica, temendo di finire come certi altri maschietti nel vizio aborrito della biciclettata mattutina domenicale, preferisce calcare le scene. Con non minore dispendio di energie però, almeno a giudicare dagli ammiccamenti facciali da nervosetto.

Tornando al complesso del caravanserraglio televisivo, con intollerabile superficialità, e nonostante l’esercito di presenze lautamente retribuite, il giornalismo da video ha via via alleggerito il proprio impegno verso l’ approfondimento, affossando la giusta consuetudine di far uso di concretezza, e buon senso, a volte persino del buon gusto, e, non ultima, dell’indispensabile obiettività. Zuffe vere o posticce, tra incontri sempre più urlati, sono moderate, con evidente difficoltà, da giornalisti più votati alla apparenza che alla sostanza del loro mestiere. E non sempre entusiasma, chi guarda da casa e magari fatica a sbarcare il lunario, che scorra in sovrimpressione, a fine programma, il nome dello stilista che veste i volti più noti del firmamento giornalistico televisivo. Presentarsi griffati, e dichiararlo a piene lettere nella striscia di coda, è un vezzo da conduttore ormai comunemente accettato da chi indossa i panni della maison preposta al vestimento del mezzobusto da copertina (sembrano lontani i tempi in cui si multavano o sconfessavano i giornalisti impegnati nella pubblicità del fustino di detersivo…). Perché in TV non è vero che l’abito non fa il monaco. Tant’è che qualcuno, per sottolineare le personali evoluzioni ideologiche, s’affida, dopo le giacche doppiopetto, a tenute stracciarole da marciapiede. O a camicie candide con la manica rabboccata, o a barbe corvine coltivate anche per nascondere il collo che casca.

Forse bisognerebbe chiedersi se quel che appare è anche spesso il segnale di ciò che sta sotto il vestito, di chi ospita e di chi corre a farsi ospitare: cioè niente.

E di quel niente, ché l’imperatore è nudo, si stanno avvedendo un po’ tutti. Tanto che il crollo di audience dei più noti imbonitori del giornalismo televisivo sembra rischiare di travolgere anche i meno colpevoli e più dotati di altri. Con gran rivalsa di molte firme buone della carta stampata, quelle poco aduse a frequentare i corridoi delle corti televisive e che i gran cerimonieri della comunicazione televisiva e mediatica avevano date come ormai superate e vicine al collasso. Ma pare che non ci sia schermo mediatico che tenga, vale per internet e per la TV: che conta, finalmente lo sappiamo, è la sostanza. La buona carta stampata, lo dicono autorevoli e recenti interviste di addetti ai lavori, e accurate indagini fresche di pubblicazione, ha e avrà ancora tanto da dire. Giornali e riviste sono ancora i media preferiti, da chi ricerca una personale opinione sui fatti, rispetto a televisione e internet. David Randall, giornalista britannico di fama, a Ferrara in questi giorni per il Festival della rivista “Internazionale”, ha dichiarato il suo pieno ottimismo sulla rivalutazione a breve della informazione di qualità. Insomma, anche per Randall la vera griffe coincide con la firma. E non si tratta di moda.

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