È in atto da qualche settimana – in verità da molto più tempo – una questione incentrata sul fatto se la Padania, mitica regione reinventata da Umberto Bossi, esista o no. Il referendum della Scozia, dove poi s’è deciso a maggioranza di restare con il Regno Unito, ha rinfocolato le aspettative di qualche leghista operoso, che magari un’analoga consultazione l’avrebbe voluta promuovere qui per separarsi dall’Italia.
Ma dove sta la Padania? V’è chi, da sempre, la considera una sorta di Neverland – l’Isola che non c’è, come nella fiaba di Peter Pan – e chi invece compulsa atlanti e enciclopedie per sostenere che Bossi ha – aveva – tanti ragionevoli motivi dalla sua per sostenerla.
Così come dicono realtà e buon senso, si può ovviamente affermare che la Padania, come regione, in Italia non esiste, ovvero non fa parte delle venti che un tempo la stessa Carta costituzionale enucleava. Più genericamente si può dire che la Padania è la valle costituita dal nostro più grande fiume, il Po. L’equivoco nasce perché Bossi e altri leghisti, nel circoscrivere la Padania, ricomprendevano tutto il Nord d’Italia, e magari anche la Toscana e l’Umbria, dimenticandosi del fatto che il Tevere – l’odiato fiume – sorge proprio tra Toscana ed Emilia Romagna (Mussolini, d’impeto e per ragioni di propaganda, ordinò di iscrivere il monte Fumaiolo nella provincia di Forlì-Cesena, territorio di cui era originario, invece che in quella di Arezzo).
Ora, a buon diritto uno che è nato a San Zenone o a Sannazzaro de’ Burgondi o a Corbola può definirsi “padano”. Abbiamo qualche dubbio che lo possa dire uno di Belluno, il cui fiume di riferimento è probabilmente il Piave, e anche uno di Rancio Valcuvia. Si può inventare e discutere di tutto, ma la geografia è quella che è. Se poi si vuole chiamare asino un cavallo e viceversa, allora il dibattito finisce subito.
Di Padania in Padania, dalla terra agli uomini: per la Lega è anche tempo di bilanci. Dario Galli, sindaco di Tradate e poi presidente e commissario della “defunta” Provincia di Varese, in un’intervista rilasciata qualche settimana fa illustrava come fiori all’occhiello della sua gestione risultati invero già bene indicati e talora raggiunti nel Varesotto dalla giunta socialista di Alfonso Spozio (trenta e passa anni fa) e messi in cantiere da quella del democristiano Fausto Franchi tra gli anni ‘60 e i primi ’70 (cura di santuari e monasteri, strade, scuole…). Il buon Galli, esaurita anche burocraticamente e da un punto di vista legislativo la propria esperienza politica, chiosava dicendo che tornerà a fare il dirigente d’azienda (pochi mesi prima però la Lega l’avrebbe voluto premiare con un seggio europeo a Bruxelles – Strasburgo: non ce l’ha fatta, purtroppo, se no ancora per qualche tempo avrebbe dovuto rinunciare al ritorno in azienda, come Cincinnato).
Nella Lega, commentava in sostanza Dario Galli, che in fondo del partito rappresenta il volto più umano e meno movimentista, c’è stato tra l’altro un difetto di comunicazione e soprattutto una diversità di trattamento da parte dei media, per esempio nel caso dei guai del figliolo di Umberto Bossi, detto il Trota, spintonato dai suoi in Consiglio regionale a Milano, mentre per esempio poco (o nulla) s’è detto del papà di Matteo Renzi, sotto inchiesta a Genova per bancarotta. C’è del vero. Ma gli insuccessi del Trota in Regione, dove era stato portato subito dopo la faticosa conquista del diploma di maturità, avevano un significato politico-dinastico ben diverso. La ramazza presa in mano da Maroni sotto gli occhi dell’amico (ex?) Umberto era stata il più evidente segno di misura della differenza.
Le colpe dei padri mai dovrebbero ricadere sui figli e viceversa. Così afferma una massima di largo buon senso. Ma la realtà insegna che ci sono padri e padri e, soprattutto, figli e figli.
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