Soren Kierkegaard (1813-1855) rimproverava ai cristiani del suo tempo e della sua Chiesa (luterana danese) la presunzione di una fede limitata alla pratica passiva dei riti domenicali (messa, comunione), una volta battezzati, ma sconfessata da pensieri, atti, superficialità dei costumi. In chiesa omelie sulla sobrietà, sull’umiltà, sulla disponibilità a mettere a repentaglio anche l’esistenza nel momento della testimonianza, ascoltate senza intima partecipazione e al contempo smentite incoerentemente da pastori eternamente intesi a sintesi concilianti con il vivere del mondo, strettamente compromessi coi poteri dello Stato, impegnati solo nel chiarire negli studi biblici e teologici passi evangelici dal dettato sin troppo chiaro e tutt’altro che ambigui, ben lontani dallo stile tipicamente kierkegaardiano dell’aut-aut per l’et-et di conseguenze senza rischio, né coerenza. Onori, prebende, una vita agiata, il compromesso anziché l’esempio coraggioso. Non si può soltanto ammirare Gesù, quanto invece imitarlo.
La religiosità è per il nostro filosofo il momento sofferto di una interiorizzazione radicale, di una profonda e costante purificazione; il cristiano deve porsi in assoluta controtendenza con questo mondo intrinsecamente di peccato, senza un comodo rimando fideistico all’altro. Oltre il livello estetico che caratterizza l’abbandono al godimento immediato, il culto dell’attimo (vedasi la figura di Don Giovanni, che polverizza nel piacere ogni istante ed esperienza di vita e non raggiunge il livello della soggettività; l’altro protagonista di Enten-Eller nel Diario del seduttore è Johannes, cultore di un piacere raffinato e differito, che usa la partner come una cavia da accertamento sperimentale – exacerbatio cerebri) c’è lo stadio etico, che rappresenta la moralità in senso stretto, il principio di responsabilità (si incarna nella figura dell’assessore Guglielmo). È il momento della scelta, della decisione, di una scelta che è però autoreferenziale, del proprio sé e comunque attestazione della libertà. Il culmine è nello stadio religioso, il momento della verità autentica dello spirito. Si tratta di un’esperienza che comporta serietà, sofferenza, senso del peccato e della colpa, isolamento individuale. Siamo quindi lontani da una celebrazione epidermica della religione come comunemente praticata.
Il gigante della fede è Abramo, individuo assoluto davanti a Dio (rientra nella categoria irriducibile del singolo), chiuso nel più ermetico dei silenzi. Di fedeltà adamantina nell’obbedienza, respinge le tentazioni dell’etica, che gli imporrebbe di uccidere il proprio figlio, ma intimamente sa per certo che Dio assicurerà una soluzione felice alla vicenda (è la tesi di Timore e tremore, 1843). Del 1844 è Il Concetto di angoscia: l’uomo è una creatura intessuta di nulla, che però turbato avverte con la sua confusa coscienza la possibilità di potere e nella sua inquietudine e astenia si dispone come Adamo alla tentazione del serpente. Il timore del finito s’apre comunque al senso dell’infinito, dell’eterno, i cui elementi sono già presenti in lui. Qui la forza propulsiva di questa malattia.
Del 1849 è il capolavoro La malattia mortale: è la volta della disperazione, sintomo del problema che ogni uomo ha con se stesso strutturalmente, in quanto non è autosussistente, autofondato, centrato in sé. Chi non ne è assolutamente cosciente vive in una serena e insieme tragica inconsapevolezza. C’è poi chi sperimenta la disperazione del finito e della necessità e chi dell’infinito e della possibilità, gli uni incapaci di qualsiasi volo, gli altri smarriscono il contatto con la realtà, principi dell’immaginazione, sospesi in uno spazio-tempo onirico. Si passa da chi si accoda alle tendenze dominanti a chi troppo progetta velleitariamente.
Il messaggio dell’ultima fase del pensiero di Kierkegaard si ricollega al dramma di un cristianesimo vittima del primato del teorico sul pratico, del sapere sul fare. Non si coglie così l’assoluta eccezionalità dell’incarnazione di Cristo, in cui si enfatizza lo statuto di persona singola. Gesù è il Maestro che più che dire o insegnare la verità è la verità letteralmente intesa. Comunque Kierkegaard, reattivo al contempo verso l’Illuminismo e l’Idealismo, considera positivamente la sofferenza quale segno di maturità. Del primo confuta il principio di una religione naturale affidata alla ragione (deismo), del secondo la conciliazione tra religione e ragione, subordinando la prima alla filosofia.
Nato a Copenhagen da famiglia facoltosa, cresciuto secondo i criteri di una rigida educazione cristiana con un padre impegnato in intense pratiche di devozione, Kierkegaard si iscrive alla Facoltà di Teologia, mentre sta maturando una crisi che lo orienta verso un orizzonte di dissipatezza, appassionato ai piaceri della vita con una vis polemica non comune. Nel 1835 la rottura col padre per qualche oscura colpa del genitore, che doveva gravare su tutta la famiglia. È il momento di un Dio giudice severo, anticotestamentario, che punisce e insieme punendo elegge. Del 1842 la laurea con una tesi dal titolo Il concetto di ironia, costantemente riferito a Socrate. Indi la partenza per Berlino e la frequenza alle lezioni di Friedrich Schelling, ascoltate in chiave decisamente critica. Conosciuta Regine Olsen nel 1837, si fidanza con lei nel 1840, ma se ne separa presto dolorosamente con notevole scandalo nella buona società. Rimarrà la sua ossessione, comunque relegata alla normalità dello stadio etico, estranea alla concezione e riflessione spirituale e religiosa di Kierkegaard.
Del 1844 le Briciole di filosofia e del 1846 la Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia, risposta antitetica al pensiero hegeliano. Nel 1855 la pubblicazione del periodico L’istante, implacabile atto di accusa contro la Chiesa ufficiale.
Kierkegaard è il primo pensatore di rilievo che scalza nei suoi scritti la forma-sistema a favore della forma-saggio; elegante e duttile, è sempre brillante. Procede per tagli spesso temerari e opera scelte radicali. Mentre offre di sé un interminabile autoritratto, rispetta anche il carattere scisso e conflittuale della verità. La sua opera è tutto un invito all’originalità, senza farsi condizionare dai continui tentativi di irregimentare le menti e a considerare il mondo, verso cui la disaffezione è sempre più pronunciata, comunque non come un cieco mostro di cieca forza, ma una storia, una vicenda di peccato, in cui sacrificando la ragione, facendo il vuoto rispetto a ogni visibile oggettività, in una altissima tensione esistenziale, ci si ripropone l’esempio di Gesù, per decidere del proprio destino eterno.
Un’ultima osservazione, relativa alla concezione che Kierkegaard ha della donna, secondo i suoi tempi. La donna è specialista dell’immediato, estranea alla tensione spirituale che caratterizza certi uomini, è condannata a vivere in uno stato di semiconsapevolezza, ontologicamente ed eticamente poco consistente: le si può attribuire qualunque significato, perché non ne ha nessuno. Ma l’uomo, frutto della galanteria, ne fa il centro del mondo. Siamo ai vertici della misoginia.
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