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Cultura

SEGANTINI RITORNA A MILANO

PIERO VIOTTO - 26/09/2014

È uno dei più significativi artisti dell’800 italiano, ma i suoi quadri sono quasi tutti all’estero e la sua opera è più studiata in America che in Italia, eppure la sua formazione è tutta milanese, nel mondo della scapigliatura, viene dalla scuola di Brera, ma la critica italiana lo snobba. Giovanni Segantini nasce nel 1858 ad Arco in Trentino allora sotto il dominio austriaco, muore nel 1899 a soli 41 anni mentre ai piedi del ghiacciaio di Schafber in Svizzera tra i cantoni di Friburgo e Berna, a quasi 2000 metri di quota, sta dipingendo un grande trittico sulle montagne dell’Engadina, da presentare a Parigi per l’Expo del 1900. Rimasto orfano di padre e di madre a otto anni, con una sorellastra, arriva a Milano. Arrestato per vagabondaggio viene internato in un riformatorio, quando ne esce a 15 anni fa il garzone di bottega e frequenta le scuole serali. Lo scopre il figlio di un barone ungherese, Vittore Gubricy, nato a Milano, anche lui artista, ma bene ben introdotto nel mercato d’arte e lo sostiene

Milano, la sua patria di adozione, sino al 18 gennaio 2015 gli dedica una grande mostra, con oltre 120 opere, a Palazzo Reale, curata da Annie-Paule Quinsac, docente della University of South Carolina, con un magnifico catalogo ricco di documenti e saggi critici di autori italiani, pubblicato da Skirà. Segantini non ha inventato il paesaggio alpino, ma come scrive la curatrice “Diversamente dai predecessori e dai posteri sarà l’unico a proporre un ottica sensoriale nel rendere la fisicità dei monti, anche quando troverà la via per trasmetterne il mistero”. In fondo le sue opere, che illustrano le vicende della vita umana dalla nascita alla morte, veicolano una sorta di panteismo naturalistico, ma rispettoso delle tradizioni popolari cristiane come nella famosa tela “Ave Maria a trasbordo” anche se ben lontana dalla spiritualità raccolta dell’ “Angelus” di Jean François Millet, non tanto per la diverse ambientazione, l’imbarco delle pecore nel primo e il lavoro nei campi del secondo, quanto per le diverse motivazioni estetiche, la pura e semplice ricerca degli effetti luminosi nel primo la ricreazione di un clima di preghiera nel secondo. D’altra parte Segantini viveva in chalet ed alberghi svizzeri a cerca di ricchi clienti, Millet con gli altri pittori della “Scuola di Barbison” in alberghetti spartani della campagna francese. Questi ultimi non avrebbero mai affiancato la madre con il suo bambino ad una mucca con il vitello, anche se il bel quadro di Segantini fa molta tenerezza. Titolare poi l’opera del 1889, Le due maternità, è un’offesa al genere umano, perché gli animali si “riproducono”, ripetendosi, mentre gli uomini “pro-creano”, ed ogni essere umano è unico. Ma alla fine è lo stesso Segantini a riconoscerlo quando nel 1894 dipinge L’angelo della vita e nel 1896 L’amore alla fonte della vita, nella quale due giovani innamorati avanzano dal fondo della tela versi un angelo dalle ali spiegate che li attende alla sorgente della vita.

Nello sviluppo dell’arte segantiniana siamo passati dal “divisionismo” una tecnica che frantuma i colori sulla tela per rendere al massimo la luminosità, in una ricostruzione puramente ottica della rappresentazione, al “simbolismo” un arte che vuole essere “ideista” cioè esprimere un’idea attraverso le forme, proprio come Bergson sosteneva in quegli anni nel “Saggio sui dati immediati della coscienza”, rivalutando l’inconscio ma considerandolo non sono, come Freud, nel subconscio carnale, ma anche, come Platone, nel sovraconscio spirituale.

Nella mostra si possono rintracciare questi momenti successivi, dai primi approcci ancora realistici nei paesaggi di Milano, come Il naviglio a ponte san Marco del 1880 fino agli studi per il trittico, La natura, la vita, la morte (1896-99) per l’Expo parigina, nel quale divisionismo e simbolismo si ibridano. Ma la mostra è organizzata per sezioni tematiche, anche per documentare come il medesimo tema sia trattato dall’artista più volte e con tecniche diverse. Le opere sono raggruppate intorno ai ritratti, che comprendono anche sette autoritratti, ai paesaggi, alle nature morte, e quelle simboliste nella sezione Sentimento e spiritualità.

Disprezzato dagli artisti e dalla critica del primo novecento, perché ha abbandonato i temi storici e nazionalisti del romanticismo, Boccioni scrive di lui “ignorantissimo, posa a gran sacerdote di una nuova religione della natura e piano piano sdrucciola dagli azzurri ghiacciai italiani alla sterile bassura germanica”, dimenticato, in seguito, dalle avanguardie dell’arte informale, viene ora riscoperto e valorizzato dalla critica internazionale.

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