Fino a qualche anno fa, tra la fine del Novecento e il primo decennio dei 2000, Robin Williams era uno degli attori più celebrati di Hollywood; e non solo: oltre a essere uno dei più richiesti, era uno dei meglio pagati. Ma, almeno all’apparenza, grazie alla sua sensibilità e alla sua simpatia, non dava l’impressione di porre il denaro al di sopra di ogni altro valore terreno. Nella vita, del resto, s’era già distinto in non conosciutissimi gesti di solidarietà, per esempio gli aiuti offerti al “vecchio” amico e compagno di studi di recitazione Christopher Reeve – il Superman del cinema –, caduto da cavallo e rimasto paralizzato agli arti.
La stella di Robin è precipitata in un battibaleno a ridosso del Ferragosto, proprio come gli astri che solcano il cielo nel buio delle notti d’estate, andando a porsi nella scia di altre cadute, di altre incredibili morti nella storia del cinema: da quella occorsa sul finire dello scorso inverno a Philip Seymour Hoffman, a quella del giovane Heath Ledger, a quella di John Belushi, alla grande e indimenticabile Marilyn… Addirittura le biografie hanno ricordato che negli ultimi momenti della vita di John Belushi, Robin, che gli era amico, gli era stato accanto. Morti per droga, suicidi, come se la felicità dell’enorme successo conseguito da sola non bastasse a colmare gli animi, e dunque ognuno andava alla ricerca di qualcosa di più: il successo e il denaro all’improvviso creavano vuoti e paure che si dovevano in altro modo riempire.
La tv, anche in queste ultime settimane, ha fatto passare alcuni dei film che hanno reso celebre Robin Williams. A cominciare dall’Attimo fuggente (1989), di Peter Weir, nel quale Robin, nella parte del professor Keating, coinvolge e raduna attorno a sé un gruppo di giovani liceali amanti della poesia: memorabile il finale in cui i ragazzi commossi salutano il loro insegnante con le parole di Walt Whitman “O capitano! Mio capitano”, salendo in piedi sui banchi. E poi l’altrettanto famoso Good morning, Vietman (1987), di Barry Levison, dove tra accattivanti battute e veri drammi, Robin Williams interpreta la parte del conduttore radiofonico Adrian Cronauer, chiamato a Saigon – siamo nel 1965 – per intrattenere i soldati americani chiamati a combattere un’altra guerra inutile. E ancora, a caso tra moltissimi film, lui che era attore eccellente dotato di una particolare vis comica (ma spesso venata da malinconie): Popeye – Braccio di ferro (1980), di Robert Altman; Hook – Capitan Uncino (1991), di Steven Spielberg; Mrs Doubtfire – Mammo per sempre, di Chris Columbus. Né nel 1998 gli era mancato l’Oscar – come miglior attore non protagonista – per il film Will Hunting – Genio ribelle, di Gus Vant Sant.
Nella parte di Mrs Doubtfire, dove il protagonista travestito da donna interpretava l’esilarante parte della bambinaia dei propri figli dai quali era stato allontanato a causa di un divorzio, si diceva, l’avremmo dovuto rivedere di nuovo sugli schermi.
Il declino, il ricorso probabile a sostanze stupefacenti (l’ultima moglie ha parlato anche della sua scoperta di essere affetto del morbo di Parkinson) lo hanno probabilmente condotto al suicidio e alla morte. Una morte strana, rara e originale, hanno scritto molti giornali: Robin si sarebbe appeso con una cintura, morto soffocato dalla caduta del proprio corpo, ma rimanendo con i piedi a terra.
Non è così purtroppo. In letteratura, almeno, se n’era già sentito parlare. Piero Chiara fa morire in questo modo Temistocle Mario Orimbelli, il diabolico e misterioso personaggio di uno dei suoi romanzi più famosi – La stanza del vescovo –, romanzo di cui peraltro si ricorda una buona trasposizione cinematografica di Dino Risi. Nel film l’Orimbelli era interpretato da un eccellente Ugo Tognazzi.
Scrive Chiara: “Impiccagione alla Condé (…). Rara, ma non eccezionale. Il principe di Condé, non quello del Manzoni che dormiva la notte prima della battaglia di Rocroy, ma l’ultimo dei Condé, Luigi, si impiccò alla maniglia di una finestra e diede il suo nome a questa tecnica…”. Poi lo scrittore luinese indugia, forse un po’ troppo, nel descrivere il gesto di autodistruzione, inopinato epilogo del suo romanzo giallo: “Ci sono casi di persone che si impiccano alla testata del letto, sollevandosi un pochino e infilando la testa nel cappio per poi lasciarsi andare di colpo a sedere. Basta il peso del corpo…”.
È difficile pensare che Robin Williams abbia mai letto il romanzo di Chiara o che in qualche modo si sia ispirato alla morte del principe Luigi di Condé per mettere fine a una vita, la sua, piena di successi, di gioie, di luci ma anche di nascoste amarezze e di angosciose ombre.
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