“Si era alla vigilia della partenza della cronometro Erba-Como del Giro del 1952, stradominato da Coppi, e mi convocò Alfredo Binda, allora commissario tecnico delle nazionali destinate al Tour, per dirmi che aveva intenzione di portarmi in Francia perché – soggiunse – ho l’impressione che tu con i due primattori, Bartali e Coppi, sappia trovare la parola giusta”. Fu una sorta di premonizione, un investimento sulle capacità diplomatiche di Alfredo Martini allora gregario di super lusso del pedale nazionale in amichevole equilibrio con i due capiscuola e anche con il terzo uomo di quell’inimitabile ciclismo post bellico, Fiorenzo Magni. Due toscani di lingua svelta e un ligure piemontese schivo e taciturno da tenere insieme per il bene del patrio pedale evitando, nel limite del possibile, lacerazioni.
Nel salotto della sua casa di Sesto Fiorentino raccontava, con l’abituale precisione, il film dei suoi tanti ricordi ciclistici. Poche vittorie ma di grande qualità: una tappa al Giro del ’50 con maglia rosa a Brescia per un giorno, Il Giro del Piemonte nello stesso anno, quello dell’Appennino nel’47, una tappa al Tour de Suisse del ’51). E poi alcuni piazzamenti d’oro, terzo nella generale del Giro del’50, terzo nella Cuneo – Pinerolo del ’49 dietro a un monumentale Coppi e a un fortissimo Bartali. Riandava volentieri al Giro della Svizzera del ’51 perché, diceva, “dopo tanti anni di guerra, di distruzioni, di sangue, mi affacciavo a un paese intatto che aveva i fiori alle finestre, le strade scorrevoli, alberghi decorosi e accoglienti, un modo di vita civile scampato alla grande catastrofe”. Quella catastrofe che lui, di famiglia socialista, aveva vissuto partecipando alla Resistenza nella brigata Lanciotto Ballerini con un compito rischiosissimo, trasportare in bicicletta ordigni esplosivi alle formazioni partigiane operanti sul monte Morello.
In veste di atleta Martini aveva misurato il passo con Bartali che riteneva il maestro, Coppi, il fuoriclasse assoluto, Magni il combattente indomabile. Poi indugiava con affetto sui grandi rivali elvetici dell’epoca: Kùbler, potenza e astuzia volpina, Koblet un elegantissimo mix di genio e talento.
A un certo punto chiedemmo ad Alfredo in quale angolo della casa fosse il suo rifugio ciclistico. Ci fece attraversare il piccolo giardino fiorito della sua villetta anni trenta per entrare in una minuscola costruzione buia. Accese la luce e di colpo, appese a una lunga sbarra di metallo, apparvero le bici della sua vita di corridore: le Bianchi, le Wilier Triestina, l’Allegro e la Tebag svizzere e altre di recente costruzione. Con una punta di civetteria aggiunse: “qualche giretto lo fo’ ancora e allora me le aggiusto, cambio i tubolari, registro il cambio”. Aveva già da tempo doppiato gli 85 anni il grande Alfredo ma lì tra gli amati ferri del mestiere gli veniva spontaneo parlare dei tanti campioni portati alla maglia iridata. Moser, Saronni, Argentin, Fondriest e Bugno per due volte consecutive – più sette argenti e altrettanti bronzi – avevano dato lustro alla sua inimitabile carriera di ct. lunga 23 anni. Per Gianni Bugno, un talento purissimo, nutriva qualche rimpianto. “Come motore era al livello di Indurain, gli mancava solo qual cosina qui” e con il dito indice si toccava la fronte. “Ha vinto tanto ma avrebbe potuto vincere molto di più”, una versione più elegante la sua dei due indispensabili ingredienti bindiani per il successo, “la testa e i garun”.
Ci spostammo nel suo studio, tra trofei, coppe, diplomi e tre alte pareti piene di libri, guardandoli disse che non dovevamo sorprenderci perché nella primissima gioventù era stato aiuto bibliotecario a Sesto Fiorentino e da allora furono irrinunciabili compagni di viaggio della sua lunga vita. Infine ci mostrò un grande registro nero sul quale annotava, con certosina precisione, ordini d’arrivo, medie, altimetrie e personali giudizi. Smessi gli abiti del ct. per alcuni anni era infatti stato coordinatore di tutte le nazionali azzurre.
Domenica in Spagna si disputerà la gara più attesa dei mondiali 2014, quella dei professionisti, da qualche anno evitava le trasferte ma nelle dirette televisive dalla corsa non mancava mai la sua telefonata, puntuale nelle fasi decisive della gara. Alfredo Martini se ne è andato un mese fa lasciando un vuoto di cui occorre avere una rinnovata consapevolezza. Qualcuno, scomodando gli spagnoli, ha scritto che era un “un hombre vertical”, semplicemente era un italiano inconsueto, atipico, impermeabile alle mode, parco coi media che pure se lo disputavano, per niente disposto a correre in soccorso del vincitore. Per questa ragione la sua lezione di vita e di uomo pubblico deve andar ben oltre il mondo delle due ruote.
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