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C’è un’idea di spazio pubblico condiviso, rappresentativo del concetto di collettività e resistente alle decisioni calate dall’alto nel gesto di salire su di un albero minacciato di abbattimento, per starci sei giorni. La vicenda di Michele Forzinetti – il ragazzo quasi immediatamente ribattezzato il Barone Rampante – della quale molto si è occupata la stampa nazionale, racconta innanzitutto il malessere dei cittadini riguardo al decisionismo dell’amministrazione di Varese, che è riuscita a destituire di fondamento il pure fasullo appellativo di Città Giardino.
Ma quale Città Giardino? – si chiedono ormai moltissimi varesini – quella che decide di eliminare sedici esemplari di cipressi della California solo perché non appartengono al disegno originale del parco pubblico settecentesco in cui stanno? Se quella locuzione, quell’accostamento del concetto di città agli spazi verdi, aveva ancora un senso (per nulla coincidente però con l’idea riformatrice di fine Ottocento Garden City of To-morrow) nell’esperienza degli abitanti di Varese, esso sembra essere stato spazzato via dall’attacco alla integrità del suo parco più rappresentativo.
Il progetto che vorrebbe eliminare gli alberi non autoctoni rappresenta perfettamente la distanza dalla realtà di chi da vent’anni amministra la città. Il provvedimento, che vorrebbe riportare il parco pubblico al suo stato originario, immagina una condizione in cui esso continui a circondare la dimora di un aristocratico, rispondendo al suo gusto e piacere, senza le perturbazioni delle successive modifiche nella gestione e nell’uso.
Eppure, da quando – a partire dalla prima metà del XIX secolo – i parchi ed i giardini sono entrati a far parte delle attrezzature pubbliche, le necessità funzionali hanno di gran lunga sorpassato quelle estetiche. I parchi urbani sono luoghi che le persone valutano in primo luogo per la possibilità di svolgervi le differenti attività di svago che ne giustificano la presenza. Un’idea solo estetizzante del verde pubblico finisce per limitarne la fruibilità, facendolo diventare uno sfondo da guardare e non toccare. Un concetto che tende a separare la gestione dello spazio dalle necessità di chi lo utilizza.
Riportare un parco frequentato da differenti gruppi di persone, con altrettante distinte finalità, allo stato di originario giardino di delizia privato potrebbe perfino far sorridere se non fosse che l’iniziativa viene spacciata come uno dei provvedimenti che dovrebbero rendere più attrattiva la città in vista di Expo 2015. I cipressi della California sarebbero quindi sacrificati per attirare i visitatori di Expo i quali – chissà perché – dovrebbero morire dalla voglia di visitare un parco settecentesco filologicamente restaurato.
È la solita logica dell’inversione delle priorità amministrative: prima di tutto la customer satisfaction e che i cittadini si adeguino. Con questa chiave di lettura si capisce meglio perché insieme al progetto di taglio dei cipressi siano apparsi, nello stesso parco, spazi privati per attività di ristorazione: non si vorrà per caso lasciarli morire di sete e di fame i visitatori paganti delle attrazioni della Città Giardino?
La diffusa solidarietà che i cittadini hanno manifestato nei confronti del gesto di Michele, la raccolta di firme con la quale essi chiedono di rivedere un provvedimento quanto meno autoreferenziale, sono una prima, concreta, manifestazione di disagio per il modo in cui la città è stata amministrata negli ultimi decenni. In particolare dall’ultimo, a partire dal momento in cui la città ha presentato la propria candidatura per ospitare i campionati mondiali di ciclismo del 2008, l’idea di approfittare dei grandi eventi per qualche forma di restyling è diventato il principio ispiratore dell’azione dei suoi amministratori.
Nulla di nuovo rispetto a ciò che è successo nel resto d’Italia: le stesse procedure di urgenza, lo stesso commissario della protezione civile che disponeva la realizzazione di grandi strutture alberghiere in deroga al piano urbanistico e gli stessi operatori immobiliari, poi incappati in guai giudiziari. La stella polare degli amministratori della Capitale della Padania leghista sembra essere l’adagio “nulla di nuovo sotto il sole” più che lo slogan “padroni a casa nostra”, e forse ora potrebbero cominciare a sentire lo scricchiolio della perdita del consenso molto prima di quello dell’abbattimento dei cipressi.
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