Una inserzione pubblicitaria apparsa su un periodico economico molto diffuso presenta “la buona flessibilità” a cui la società Umana intende contribuire con l’offerta di “lavoro temporaneo, staff leasing, ricerca e selezione, outplacemen, formazione”. La flessibilità è diventata la caratteristica dominante dell’organizzazione sociale; non è ancora una realtà ma un progetto sostenuto dal riformismo contemporaneo.
Al contrario della società industriale di tipo fordista, che era organizzata secondo il modello rigido della fabbrica, con la catena di montaggio e le gerarchie interne, la società flessibile è quella in cui sono cadute le barriere che fissavano i rapporti interpersonali e che favorisce l’indipendenza e l’autonomia come valore distintivo della modernità.
Il lavoro flessibile richiede una società flessibile che assomiglia sempre di più ad una impresa dove il lavoro si svolge per ventiquattro ore per tutti e sette i giorni della settimana. La “società 7 x 24” trova un sostegno insostituibile nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La mobilità incessante del personale lavorativo deve essere facilitata da percorsi di formazione permanente per consentire all’individuo di occupare posti di lavoro differenti invece del “posto fisso”. Anche l’organizzazione statale, la scuola, il sistema sanitario devono adattarsi ai mutamenti dell’ambiente economico, sociale e culturale.
Alla diffusione del lavoro flessibile si oppongono però le regole del mercato del lavoro che corrispondevano ai bisogni della società fordista ma che nella mutata società postmoderna diventano un ostacolo allo sviluppo.
Questa è l’idea del progetto riformista ma in realtà esso produce una forte polarizzazione verso l’alto e verso il basso della scala sociale e con una crescita a dismisura delle disuguaglianze sociali ed economiche.
In qualche caso la flessibilità favorisce una maggiore autonomia dell’individuo, ma alla maggioranza dei lavoratori flessibili sono affidate mansioni frammentate di scarsa qualità. Per questi lavoratori a tempo determinato, cioè precari, c’è il rischio di finire al di sotto della linea di povertà relativa (metà del reddito medio individuale) o addirittura della povertà assoluta.
Se il lavoro precario si generalizza, la società rischia di disintegrarsi. La integrazione sociale è infatti un bene primario che serve a mantenere l’ordine e la coesione sociale, intesi come stabilità di relazioni tra individui e gruppi sociali, etnici e religiosi.
Nel modello organizzativo della società flessibile non esiste più il tempo necessario né le occasioni affinché tra le persone si stabiliscano dei legami stabili. Anche l’idea del giorno festivo uguale per tutti, che è un simbolo di appartenenza, viene considerato un feticcio da rimuovere.
In una società democratica matura occorre che l’individuo sia integrato nella famiglia, nella comunità locale, in vari tipi di associazione; queste condizioni vengono annullate dalla flessibilità del lavoro che non conosce festività civili e religiose e si svolge anche di notte.
Inoltre l’indipendenza economica della persona, base della sua indipendenza politica, deve essere un reddito consistente e sicuro come condizione di riconoscimento sociale. Con la società flessibile le sicurezze di base dei cittadini sono profondamente intaccate; la moltiplicazione dei lavori precari tende ad erodere la maggior parte delle tutele che gli Stati europei hanno costituito nell’ultimo secolo con il “Welfare State”, il sistema di sicurezza sociale.
La causa maggiore della forte domanda di lavoro flessibile è la riorganizzazione globale del processo produttivo allo scopo di ridurre il costo del lavoro e disporre di una mano d’opera necessaria al momento, cioè “just in time”.
Gli impianti produttivi vengono delocalizzati in Paesi dove i salari e i diritti dei lavoratori sono minori; così si sono posti direttamente in concorrenza un miliardo e mezzo di nuovi lavoratori con salari minimi e poco più di mezzo miliardo con salari e diritti elevati.
I processi economici che vanno sotto il nome di globalizzazione sono sostenuti da una legislazione del lavoro che incorpora la concezione del lavoro come merce. La flessibilità del lavoro ha portato una crescente insicurezza in tema di occupazione, cambiato identità professionali, modificato carriera e status sociale e messo in forse la progettabilità di vita. Essa però non ha affatto aumentato i posti di lavoro.
Le imprese hanno costruito un modello produttivo totalmente asservito alla libertà di movimento del capitale di cui la flessibilità del lavoro è la filiazione diretta della finanziarizzazione dell’intera economia.
Cambiare il modello produttivo dominante, sostenuto con entusiasmo da politici, imprenditori, studiosi, è quasi impossibile e i governi si limitano a mitigare gli effetti. Ma non ci si deve arrendere all’inevitabile e, quanto meno, bisogna cominciare a chiedere quali sono le cause di questa nuova e inquietante situazione.
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