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La Lombardia con i suoi dieci milioni di abitanti produce quasi un quarto del PIL italiano e una percentuale maggiore di tasse. La sua società civile, pur con tanti problemi, è di alto livello.
L’Istituzione regionale fatica a starle al passo ed ha conosciuto parecchie disavventure. La macchina regionale ha però una produttività abbastanza buona. Il suo funzionamento costa meno (o molto meno) che in altre Regioni. I consiglieri regionali sono ottanta, uno ogni centoventimila abitanti, un rapporto tra i migliori in Europa. Semmai è scandaloso che la Lombardia abbia circa centocinquanta parlamentari ma questo è un altro discorso.
Le politiche concrete per lo sviluppo, per i servizi, per il territorio, cambiano in meglio o in peggio (il giudizio che conta è degli elettori) a seconda di chi governa ma la struttura istituzionale è solida perché espressione di una cultura e di una storia ragguardevoli.
Eppure la Lombardia potrebbe fare ancora di più come traino e locomotiva del Paese se avesse redini meno strette e più spazio monitorato di azione. La legge di riforma del famoso Titolo Quinto del 2000/2001 aveva concesso troppe competenze indistintamente a tutto il sistema regionale con irragionevoli sovrapposizioni con lo Stato ma aveva capito l’esigenza dell’autonomia differenziata delle Regioni (mai praticata) che sono diversissime tra loro.
La Lombardia, tra il 2005 e il 2010, aveva inviato a Roma le sue richieste ben motivate di maggiore e circoscritta autonomia (approvate con larghissima maggioranza dal Consiglio regionale) ma i governi, compreso in primis quello Berlusconi – Bossi con Maroni ministro, non le hanno mai prese in considerazione. Poi il gelo della crisi ha fermato tutto. Da lì bisognerebbe ripartire, cioè da un’autonomia ridotta per tutte le Regioni che poi si allarga secondo progetti concreti, precisi, condivisi, severamente controllati.
Oggi invece il presidente Maroni sceglie un percorso totalmente diverso e propone lo Statuto Speciale. “Il mio modello è la Sicilia” afferma. E già mi tremano i polsi. “Così terremo tutte le tasse a Milano”. Anacronistico e irrealizzabile, come l’impegno già preso in passato di trattenere il settantacinque per cento dei tributi e di realizzare il Grande Nord.
Per raggiungere il suo obiettivo Maroni punta su un referendum che costa almeno trenta milioni. Sarebbero soldi sprecati, ma difficilmente potrà sprecarli perché difficilmente otterrà i due terzi dei voti del Consiglio regionale. Ma che senso avrebbe il referendum? Se si chiede ai lombardi se vogliono pagare meno tasse e tenerle tutte per sé la risposta è scontata.
Il problema vero è che c’è in ballo l’unità dello Stato. Le altre Regioni più ricche seguirebbero l’esempio della Lombardia e il Veneto avrebbe la conferma che è giusta la via secessionista.
I regionalisti e autonomisti seri sanno che la strada è un’altra. Tagliare metà delle Regioni; togliere i privilegi alle cinque Regioni a Statuto speciale (il contrario di ciò che vuole Maroni); premiare le Regioni virtuose e penalizzare quelle dissipatrici; applicare i costi standard per tutti i servizi.
Soprattutto, consentire alle Regioni più dinamiche di sperimentare una maggiore autonomia in qualche settore con risultati verificabili durante il cammino. In questa difficile fase della vita nazionale, che richiede riforme profonde e fattibili, l’unica cosa da non fare è la facile propaganda politica.
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