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Politica

LE TRE CAUSE DEL DECLINO ITALIANO

CAMILLO MASSIMO FIORI - 05/09/2014

Quando l’Italia era in crescita…

Perché l’Italia che dopo la fine della guerra era cresciuta, così da trasformarsi da Paese agricolo e arretrato, dal 1970 ha preso la strada del declino?

La metamorfosi dell’Italia è stata spiegata da Giuseppe Amato, noto uomo politico e due volte premier, insieme ad Andrea Graziosi in un libro edito da Il Mulino di notevole interesse per chi vuole continuare a cercare un improbabile “miracolo economico”; il titolo significativo è, infatti, “Grandi illusioni – Ragionando sull’Italia”.

Per capire la complessità della situazione non occorre far ricorso ad alcuna teoria, tanto meno ad un complotto, ma semplicemente ad un processo di dissipazione conseguente alla caduta generale del senso di responsabilità nella governance del Paese che ha condotto non solo la classe politica ma anche i sindacati e in misura rilevante anche i cittadini a non volersi farsi carico dei problemi generali ma a preoccuparsi soltanto dei propri interessi individuali e corporativi.

Un primo errore è stata la creazione dello “Stato sociale” a debito, cioè senza provvedere, almeno per un lungo periodo iniziale, a una adeguata copertura finanziaria (fino agli anni Settanta le tasse erano nettamente inferiori e insufficienti rispetto alle spese). La riforma era più che necessaria per ragioni di equità, fino ad allora infatti solo i dipendenti pubblici e poche categorie di operai e impiegati erano coperti dall’assistenza pensionistica e sanitaria ma fu attuata con superficialità esattamente nel periodo in cui furono attuate le Regioni con autonomia di spesa ma senza responsabilità di provvedere alle entrate tributarie.

La riforma delle pensioni del 1969 si basava sulla speranza che il tasso di crescita sarebbe rimasto invariato al cinque per cento, che il tasso di natalità non si sarebbe discostato dal tre per cento e che la speranza di vita sarebbe rimasta intorno ai 65 anni. Insomma che il cosiddetto “patto intergenerazionale” avrebbe continuato a reggere. Di qui un’impostazione asimmetrica come l’adozione del sistema retributivo, a percentuale rispetto all’ultimo salario, invece di quello contributivo e la concessione della pensione sociale ai cittadini anziani privi di reddito

Queste scelte erano in sé giuste ma inopportune nei tempi e nelle modalità sicché hanno portato ad un debito strutturale esorbitante che facciamo fatica a sostenere sia per l’onere degli interessi che per la scarsa fiducia dei creditori che sottoscrivono i nostri titoli pubblici.

Il secondo errore è da attribuirsi ai Sindacati, piuttosto che alla politica, ed é quello di aver sostenuto troppo a lungo la tesi del salario indipendente rispetto al reddito prodotto. I salari sono aumentati negli anni Ottanta nella misura pari a quattro-cinque volte quella del 1950 ma senza tenere conto dei livelli di produttività che hanno condannato molte imprese al fallimento. Non si può infatti distribuire quello che non si è prodotto e i “problemi del lavoro” non coincidono soltanto con quello delle regole ma, piuttosto, con gli investimenti, la ricerca, la competitività del sistema economico e produttivo.

Inoltre si volle costruire un rapporto di collegamento tra salari e inflazione, con la “scala mobile” che generava una rincorsa tra aumento dei salari. aumento dell’inflazione e svalutazioni competitive della Lira per sostenere artificiosamente le nostre esportazioni a scapito del risparmio.

Il terzo errore è stato l’atteggiamento collettivo dei cittadini di votare per i partiti capaci di offrire l’illusione che sarebbe tornato il “miracolo economico”. Questa illusione ha portato all’accantonamento delle riforme di ammodernamento del nostro sistema economico produttivo. Gli italiani si sono rivolti a Berlusconi che è stato visto come l’incarnazione virtuosa della politica democristiana della Prima Repubblica; ma i D.C. pur tra molti errori, hanno governato lo Stato e attuato molte riforme mentre l’imprenditore di Arcore si è affidato unicamente alla sua esperienza di capitalista mentre non aveva la statura dello statista.

Più in generale, dalla fine degli anni Sessanta si è persa, a livello collettivo, la logica della collettività: i sacrifici vengo invocati solo per gli altri.

Il calo demografico, con il crollo delle nascite, ha tolto al Paese l’energia giovanile e l’ingresso in Europa con l’adozione della moneta unica ha illuso la classe politica di aver trovato un salvagente per le proprie inadempienze. Il risultato è sotto i nostri occhi: l’Italia ha perso competitività; il suo debito scoraggia gli investitori esteri e rende più caro il credito, le inefficienze della burocrazia, della giustizia e della scuola incoraggiano la delocalizzazione e fanno lievitare la disoccupazione.

Ciò nondimeno gli italiani sono sempre propensi a cercare l’uomo della provvidenza capace di venire a capo delle nostre contraddizioni piuttosto che sostenere quelle forze politiche che si impegnano a fare le riforme. Sono le riforme non fatte a penalizzare l’Italia: se il prodotto interno lordo non cresce la disoccupazione aumenta; se i tempi della giustizia sono più lunghi che altrove e la pubblica amministrazione è paralizzante gli investimenti vanno in altre parti del mondo, se gli sprechi della spesa pubblica e la corruzione dilagano aumentano le disparità sociali.

Non si può pensare che un Paese alla deriva possa essere salvato da un solo uomo o da un manipolo di coraggiosi, serve una assunzione collettiva di responsabilità; non si possono mettere sotto accusa i partiti, che sono gli strumenti essenziali della democrazia, e poi disinteressarsi del loro funzionamento, della loro vita interna, delle regole democratiche che li devono informare.

Anche i cittadini devono fare la loro parte: la democrazia non è solo critica ma anche partecipazione e corresponsabilità.

 

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