Per comprendere in profondità il germogliare dell’arte in un artista e il suo vero significato intellettuale nella storia dell’arte bisogna partire dalla sua biografia, ma non sempre è possibile, perché i cataloghi delle mostre tracciano brevi cronistorie e si finisce per giudicare le opere secondo gli schemi che i manuali di storia dell’arte ci forniscono.
Alla Fondazione Gianadda di Martigny fino al 23 novembre c’è una mostra di oltre cento opere, comprese sculture e ceramiche, accompagnata da un catalogo i cui saggi esplorano con una ricchezza di riferimenti, lettere e fotografie d’epoca, che documentano la famiglia, le amicizie, le letture, la malattia invalidante, l’eredità culturale, i luoghi in cui è vissuto Auguste Renoir (1841-1918). Sono opere, esposte in ordine cronologico, che provengono dai più importanti musei del mondo, e che per la prima volta si possono ammirare confrontare insieme.
La visita all’esposizione e la lettura dei saggi in catalogo ci fanno conoscere un artista che non è solo il celebre paesaggista che con Frédéric Bazille, Alfred Sisley, Claude Monet, Paul Cezanne è protagonista del movimento impressionista; non è solo l’affermato ritrattista ricercato dalla borghesia parigina che traccia volti diventati celebri come quello del compositore Richard Wagner, incontrato a Palermo mette lavora al Parsifal o come quello delle scultore Auguste Rodin, ma è anche il poeta della vita quotidiana, della vita in famiglia e sul lavoro.
Educato dai Fratelli delle Scuole cristiane, da giovane canta nella corale diretta dal compositore Charles Gounoud nella chiesa di Saint-Eustache a Parigi, ma poi abbandona la musica per le arti figurative e la sua vocazione di pittore lo porta prima ad inserirsi nella tradizione francese di un Watteau e di un Fragonard, poi ad immergersi nell’onda impressionista, per recuperare infine, al di là del colore polverizzato, la definizione delle linee e dei volumi alla maniera di Raffaello, anche in conseguenza di un viaggio in Italia negli anni 1881-1882.
Immerso nel clima positivista del suo tempo, era amico di Émile Zola di cui ha illustrato le opere, perse la fede cristiana, ebbe una vita sessuale immorale, solo dopo dieci anni di convivenza regolarizzò, in Municipio, la sua relazione con Alina Charigot, la sua modella e la sua musa preferita, da cui ebbe tre figli, il secondo dei quali, Jean, divenne un famoso regista. La filosofia che esprimono le sue opere è un naturalismo venato di tenerezza, anche i suoi numerosi nudi di donne non sono maliziosi, come quelli di Gustav Klimt o provocatori e volutamente osceni come quelli Egon Schiele, ma nelle loro carni, paffute e rosee, rimandano alla carne dei piccoli bambini.
Il tema della maternità viene ripreso due volte nel quadro “Aline che allatta il figlio Pierre”. Prima, nel 1881 con le linee che si sfrangiano nei colori alla maniera impressionista e poi nel 1886, dopo il viaggio in Italia con forme ben delineate, ma ripetendo le figure della mamma e del bambino nella stessa posizione e con i medesimi abiti.
Renoir è attendo al mondo dell’infanzia, fa molti ritratti di bambini. Dietro al ritratto delle sorelle Alice ed Elisabetta, figlie del banchiere ebreo Albert Cahen d’Anvers, noto col nome “Rosa e blu” per la bellezza dei vestiti dipinti alla maniera impressionista a piccoli tocchi cangianti di colore, c’è una cronaca banale e una storia tragica. L’artista dovette attendere il pagamento dei 1500 franchi pattuiti con banchiere; e forse anche a questo risentimento è dovuto l’antisemitismo di Renoir, che nell’affare Dreyfus si schierò contro l’ufficiale ebreo ingiustamente condannato. Elisabetta durante la seconda guerra mondiale fu deportata e morì ad Auschwitz nel campo di concentramento.
Molto bello il ritratto “Giovane donna con il cappello nero a fiori rossi” del 1898, quando Renoir ha abbandonato i modi impressionisti, un opera nella quale la morbidezza dei colori del viso viene esaltata dalla contrapposizione di due masse di colore nero, il cappello ed un fiocco sul vestito.
La donna fu al centro della attenzione dell’artista, ma forse più come madre che come femmina, e proprio per la bellezza del corpo femminile, che volle disegnare e dipingere per tutta la vita, anche quando l’artrite alle mani gli rendeva difficile lavorare. Per un naturalista è difficile accettare il venir meno della bellezza delle forme corporee, e Renoir si rifugiava nella sua immaginazione creatrice, ma la sequenza degli autoritratti presenti in mostra (1876- 1899 – 1910) documenta anche il suo prendere coscienza della inesorabilità del tempo. In fondo la bellezza artistica, se non si aggancia alla bellezza trascendente la natura dell’Assoluto, rimane un illusione, anche se Renoir, poco prima di morire, mentre era intento, quasi paralizzato, su di una sedia a rotelle, a dipingere un ultimo quadro di “Bagnanti”, ad Henri Matisse, venuto a fargli visita, ebbe a dirgli “La sofferenza passa, la bellezza resta”.
Renoir fu il pittore del mondo borghese, ma seppe guardare anche alle classi umili, la grande scultura della lavandaia, seduta su di un sasso che sta sciacquando i panni nel ruscello (a quel tempo non c’erano le macchine lavatrici e non tutte le case avevano l’acqua) esposta a Martigny ne è una testimonianza. Una scultura che si accompagna ad un quadro “Le lavandaie” del 1914 e rimanda ad un altro quadro “Una lavandaia e il suo bambino” del 1886. Renoir muore a 79 anni nella sua casa a Cagne Sur Mer in Provenza-Costa Azzurra, dove ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, e dove sono venuti a trovarlo Maurice Denis, Amedeo Modigliani ed altri artisti che lo consideravano un maestro.
Pablo Picasso nel 1900 rifà a modo suo il celebre grande quadro del 1876 “Le Moulin de la Galette”, Giorgio Morandi e Carlo Carrà, che hanno visto le sue opere alla biennale di Venezia, si ispirano alle sue nature morte e alle sue figure, Giorgio De Chirico nel 1920 dipinge una “Arianna abbandonata” recuperando i modi delle bagnanti di Renoir.
Lascio la conclusione ad un giornalista, scrittore, critico d’arte Octave Mirbeau (1848-1917) contemporaneo dell’artista: “Renoir non è un profeta. Non si preoccupa di pronunciare un giudizio ultimo sul senso delle cose, a lui basta l’apparenza. Non dipinge né l’anima, né il mistero, né il significato delle cose, perché si può raggiungere po’ dell’anima, del mistero, del significato delle cose, solo se si è attenti alle loro apparenze. È il segreto della sua giovinezza e della sua gioia. La natura non è indulgente, e docile, che a coloro che le danno confidenza e non le chiedono di svelare in un colpo i suoi grandi segreti”.
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