Visitando la cinquecentesca chiesa del Gesù Nuovo a Napoli, e precisamente nel braccio sinistro della balaustra dell’altare, v’è la lapide sepolcrale di Carlo Gesualdo, un nome che ai più non dice nulla ma che era nipote diretto di San Carlo Borromeo e anche del papa Pio IV, quello che porterà a termine il Concilio di Trento e ne avvierà l’applicazione dei disposti, come dire la Controriforma. Di San Carlo vale la pena ricordare che quando era vescovo di Milano, quasi svenne notando che sopra l’arco di Porta Tosa i milanesi, per scherno, avevano scolpito in posa sconcia l’immagine della moglie di Federico Barbarossa nell’atto di radersi il pube come facevano le prostitute dell’epoca.
Povero San Carlo, se non fosse stato morto già da quattro anni quando accadde la storia che stiamo per raccontare, più che uno svenimento, gli sarebbe venuto un coccolone! Bisogna sapere che la sorella di San Carlo, Geronima, era andata in sposa a Fabrizio Gesualdo, principe di Venosa in Campania, da cui ebbe quattro figli dei quali l’ultimo che portava il nome dello zio prelato, Carlo, è il protagonista della nostra storia. Buon musicista e compositore sia di madrigali, sia di musica sacra, Carlo Gesualdo è da inserire tra gli innovatori dello stile musicale italiano e, se vogliamo, tra i precursori della musica moderna. Per coltivare tale passione, egli aveva creato un cenacolo in un’ala del palazzo, oggi conosciuto con il nome dei successivi proprietari, i principi di Sansevero, dove era solito riunire i maggiori musicisti dell’epoca. Comunque, per tracciare un ritratto di questo parente di santi e di papi, preferiamo ricorrere alla descrizione di un suo contemporaneo, il Conte Fontanelli, un diplomatico al servizio del Duca di Ferrara presso la cui famiglia il nostro andrà a scegliersi la seconda moglie: «Di aspetto poco imponente, piuttosto accigliato, meridionalmente indolente, e pieno di affettazioni di grandezza e di galanteria di gusto spagnolesco. Si anima per discorrere con irrefrenabile loquacità di musica e di caccia […] ama suonare il liuto e la chitarra spagnola e lo fa con gran maestria e con intensità espressiva sottolineata dal continuo atteggiare e muoversi».
Insomma il principe di Gesualdo era un molleggiato ante litteram. Come accade spesso nei matrimoni combinati, Carlo ebbe la disavventura di sposare una donna che caratterialmente era il suo contrario, la cugina Maria d’Avalos, una bellissima vedova ventiseienne carnale, esuberante e piena di quella vitalità che derivava dal caliente sangue spagnolo che le scorreva nelle vene. Da qual matrimonio nascerà un solo figlio, Emanuele. Stante la sua personalità, Maria di certo non sarà stata frequentemente ospite dei cenacoli del marito perché, oltre ad essere priva d’inibizioni, era una donna amante della mondanità piuttosto che delle riunioni di seriosi musicisti. Appena quattro anni dopo il matrimonio, si può dire che il suo ménage fosse già al punto in cui il tradimento era soltanto l’attesa di un’occasione che si presentò sotto le sembianze di Fabrizio Carafa, duca d’Andria. Era questi un giovane di circa trent’anni che le sue contemporanee definivano « …bello come un Adone e con le sembianze di Marte», insomma era il cavaliere più conteso dalle signore della nobiltà napoletana. Il fatto, poi, che fosse sposato e avesse quattro figli non gli aveva mai impedito di correre appresso alle gonnelle. Mentre, però, le donne con cui fino allora aveva tradito la legittima consorte rappresentavano soltanto delle scappatelle, con Maria d’Avalos le cose sarebbero andate diversamente perché Fabrizio commetterà l’errore che un amante non dovrebbe mai commettere: s’innamorerà della moglie di un altro. E, purtroppo, lei di lui.
La conseguenza di un sentimento che, tutto sommato, era nuovo per entrambi fu un legame che tendeva a rompere gli argini della prudenza e di quelle convenienze sociali che nella Napoli del Cinquecento avevano la loro importanza. La tresca diverrà il segreto peggio conservato in una città che, allora come oggi d’altronde, viveva e socializzava nei vicoli, nelle strade e dai balconi ed era, perciò, geneticamente incapace di custodire segreti, specialmente quelli riguardanti le pruriginose vicende dei personaggi più in vista.
Ciononostante, lungi dal diventare più guardinga, la passione tra Fabrizio e Maria divenne più intensa, solare e quasi sfrontata tant’è che essi presero a incontrarsi addirittura nel suo palazzo mentre il marito ignaro intratteneva nel suo cenacolo musicale quegli ospiti che – v’è da giurarci! – conoscevano anch’essi la storia delle sue propaggini frontali. Insomma a Napoli tutti sapevano della relazione tra Maria d’Avalos e «Adone con le sembianze di Marte», lo sapevano tutti eccetto il diretto interessato, almeno fintanto che non accadrà il classico imprevisto. Era successo che don Giulio Gesualdo, un attempato zio di Carlo (con che famiglia si era andato a imparentare San Carlo!) si fosse invaghito della bella Maria e siccome ne era stato respinto, pensò di vendicarsi informando il nipote del legame adulterino che essa intratteneva.
È verosimile che a Carlo alcuni dubbi sulla fedeltà della consorte fossero già venuti ed è anche probabile che come molti mariti traditi anche lui avesse, alla fine, finito col convincersi di sbagliarsi. Pur se dubitiamo che egli fosse riuscito a inquadrare il quadrangolo sentimentale che si era venuto a creare grazie allo zio – delatore, sta di fatto che per Carlo quello che prima dovette essere soltanto un dubbio finì col diventare la prorompente certezza di un tradimento che costituiva un’onta per lui e per tutta la casata. Sebbene a distanza di oltre quattrocento anni riusciamo a capire il patema di un uomo mite che oggi a Napoli si definirebbe “ominiello”, il quale, in fondo, chiedeva soltanto di vivere tranquillo con la sua vera passione, la musica, e che invece dovrà fare delle cose orrende perché schiavo di un codice morale che era inappellabile quanto ipocrita.
Dopo la delazione dello zio, il principe di Gesualdo comunicò alla moglie che avrebbe partecipato a una battuta di caccia che lo avrebbe portato fuori di casa un paio di giorni e, invece, durante la notte tra il 16 e il 17 ottobre del 1590, irruppe con alcuni bravacci nella sua stessa casa per sorprendere in flagranza i due amanti. Quella notte dalla stanza da letto che si trovava al secondo piano del palazzo, si udì provenire un orrendo frastuono, parole concitate, urli di dolore, due spari e infine più nulla: fu in questo modo che finì la vita di Maria d’Avalos e Fabrizio Carafa. L’indomani mattina, ordinato che i corpi nudi dei due amanti fossero esposti davanti al palazzo affinché tutti a Napoli sapessero che l’onta subita dai Gesualdo era stata lavata col sangue, Carlo si recò personalmente dal Viceré per comunicargli l’accaduto e, invece di essere arrestato, fu da questo invitato a scappare da Napoli per non incorrere nella vendetta dei parenti degli uccisi. A suo carico, poi, non fu imbastita neppure una farsa di processo perché «… per ordine del Viceré stante la notorietà della causa giusta dalla quale fu mosso don Carlo Gesualdo principe di Venosa ad ammazzare sua moglie e il duca d’Andria».
La causa giusta era il delitto d’onore, un’assurdità che sopravvivrà nel nostro codice penale fino a pochi anni fa. Erano passati meno di quattro anni dall’uccisione della prima moglie quando, il 21 febbraio del 1594, Carlo impalmò Eleonora d’Este, cugina di Alfonso II duca di Ferrara, che pure gli darà un figlio, Alfonsino, che però morirà in tenera età. Sarà stato il dolore per la morte di Alfonsino, sarà stato il rimorso per il duplice delitto, sta di fatto che Carlo era diventato un uomo cupo e avaro oltre ogni limite e aveva anche iniziato a maltrattare Eleonora che lo abbandonò per tornarsene a Modena, mentre lui si ritirò nel castello di Gesualdo che trasformerà in una sorta di reame canoro di cui lui era il re assoluto, e dove morirà l’8 settembre del 1613. Il suo corpo fu, poi, trasportato a Napoli e sepolto nella chiesa di Gesù Nuovo da dove siamo partiti.
Se dovessimo dirvi per quali personaggi di questa storia, abbiamo istintivamente simpatizzato, non avremmo nessuna difficoltà a fare i nomi di Maria e di Fabrizio. Il perché è semplice: essi furono sì dei traditori del talamo nuziale, tennero sì una condotta reprensibile ma erano personaggi tanto veri quanto immuni dai pregiudizi tipici del loro tempo, insomma erano veramente liberi come lo sono gli anticonformisti di ogni tempo.
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