Anche se si parla soprattutto di riforma del Senato, quella che oggi sta comprensibilmente al centro di un aspro dibattito politico in Italia è un vero e proprio progetto di riforma generale della Costituzione che prevede la modifica simultanea di 44 dei 139 articoli di cui essa si compone: quasi un terzo in quanto al numero, ma ben di più nella sostanza. Voluta dal governo Renzi, è una riforma che riaccentra a Roma ogni potere sostanziale con la conseguente riduzione delle Regioni e dei Comuni al ruolo più o meno di prefetture e rispettivamente di sotto-prefetture, ovvero di enti incaricati di attuare sul proprio territorio quanto è stato deciso al centro. Seppure in forme nuove e adeguate al secolo XXI, nella misura in cui tale progetto verrà attuato l’organizzazione istituzionale dell’Italia assomiglierà molto a quella che era prima del fascismo, quando le Regioni non esistevano e i prefetti inviati da Roma nelle province presiedevano le amministrazioni provinciali e pilotavano i sindaci nominandone tra l’altro i segretari.
In questo Renzi e Berlusconi sono d’accordo, al di là di ogni altra differenza, mentre vi si oppongono ampi settori dei loro stessi partiti e delle due rispettive aree delle quali i loro partiti sono magna pars, nonché ovviamente e a priori il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo. La battaglia pro o contro questa riforma vede perciò una polarizzazione atipica con due schieramenti opposti che sono entrambi trasversali. All’ombra dell’intesa in materia tra Renzi e Berlusconi, cui va anche l’aperto sostegno del presidente della Repubblica, quasi tutta la stampa italiana sia scritta che radiotelevisiva canta in coro. Gli oppositori vengono perciò sbrigativamente definiti “ostruzionisti”, e con questo ci si libera dall’onere di spiegare al pubblico le loro ragioni, che sono invece di grande spessore politico. Entrambi convinti che per gli italiani la strada dell’autonomia responsabile e della sussidiarietà non sia quella giusta, Renzi e Berlusconi vogliono riesumare il vecchio centralismo dello Stato liberale pre-fascista lasciandosi alle spalle tutti i pur timidi sviluppi in direzione del federalismo e della sussidiarietà che si erano registrati dalla Costituzione del1948 in avanti.
La questione è cruciale. Quindi deve essere oggetto di aperto e ampio dibattito. Non la si può far passare sotto banco.
Non sembri che stiamo esagerando. Chi fosse interessato a conoscere direttamente la questione più in dettaglio può visitare il sito del senato italiano e raggiungere il disegno di legge n.1429, “Revisione della parte seconda della Costituzione”. Precede il disegno (proposta) di legge una sua presentazione, che nel linguaggio ufficiale italiano si chiama relazione accompagnatoria. Basta soffermarsi sulle prime pagine del suo capitolo intitolato “Le linee d’indirizzo del progetto di riforma” per farsene un’idea chiara.
Pietra angolare del progetto è per l’appunto la riforma del Senato, certamente necessaria poiché in Italia le due Camere, così come sono adesso, costituiscono un inutile doppione cui occorreva porre rimedio. Il tipo di rimedio cui si sta pensando ne fa però qualcosa di opposto alla Camera alta dei Paesi federali o comunque non centralizzati. Composta di poco più di un centinaio tra presidenti di Regione, consiglieri regionali, sindaci in carica e membri di nomina del presidente della Repubblica, dunque non eletta direttamente dal popolo, la nuova Camera alta – chiamata con involontaria ironia “Senato delle Autonomie” — ha invece l’evidente ruolo esclusivo di…cinghia di trasmissione ai territori delle scelte del governo centrale.
Nella citata relazione accompagnatoria il nuovo Senato che si prospetta in Italia nello spazio di una sola pagina viene per quattro volte definito “raccordo”: “sede di raccordo tra lo Stato e gli enti territoriali”, “raccordo tra lo Stato e le regioni, le città metropolitane e i comuni”, “raccordo tra lo Stato e il complesso delle Autonomie e di garanzia di equilibrio del sistema istituzionale”, “raccordo tra lo Stato e il complessivo sistema delle autonomie (…); una Camera che rappresenta le autonomie intese però “come istituzioni piuttosto che come territori”.
Ci si potrebbe soffermare su molti altri elementi, ma limitiamoci a concludere citando “l’introduzione, quale norma di chiusura del sistema, di una «clausola di supremazia» in base alla quale la legge statale, su proposta del Governo (…) può intervenire su materie e funzioni che non sono di competenza esclusiva dello Stato allorché lo richiedano la “tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica o lo renda necessario la realizzazione di programmi o di riforme economico-sociali di interesse nazionale”. In una situazione del genere è giusto liquidare semplicemente come fastidiosi “ostruzionisti” quelli che non sono d’accordo?
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