A Imperia si può forse camminare tra le banchine del porto vedendo le grandi barche da vicino; così ci fermiamo sull’Aurelia ligure, trovando parcheggio facile nei numerosi piazzali in disuso dove tira l’aria dell’abbandono, dell’attività cessata, trasferita, mai partita. Fatichiamo però nell’oltrepassare le lunghe recinzioni posizionate provvisoriamente e decadenti lungo le vie d’acqua, le quali non sono certamente state predisposte credendo potessero venire turisti intenzionati a godersi il panorama marittimo. Ma crediamo sia bello poter osservare gli yacht ormeggiati in attesa di salpare verso nuove mete nella loro magnificenza, nella loro fantastica realtà.
A Giacomo pare entusiasmare questa prospettiva; a Celeste meno, probabilmente per la sua piccola minore età, mentre la mia Roberta ci segue e passeggia con uno sguardo lungo, che buca l’ammirazione del posto nel ricordo più lontano, contemplativo. Cammina la mia famiglia, solitaria tra i rottami locali buttati sulle rare erbe disseccate e lucenti guizzi di pesciolini in cerca di cibo tra gli scafi; cammina sui pontili calpestati insieme ai cani sciolti i cui padroni sono tedeschi contenti, i quali fanno merenda a ridosso dei battelli velati, più caratteristici. In prevalenza sono grosse imbarcazioni, panfili lucidi dai colori che non c’entrano nulla col bianco panna dei tempi che furono, ma seguono le mode e gli stili dei tempi più vicini, coi blu notte e i neri cupi, i titani che ne decorano le poche spigolosità, le bordure rosse ed i misurati legni in teak pregevole.
Si assomigliano fra loro, nelle passerelle mobili distese sulla terraferma a invitare soltanto coloro che già hanno lasciato le ciabatte sul posto, oltre che grigliette famigliari, il cui posizionamento sugli imbarcaderi pare essere pensato per evitare di insozzare d’unto quei parquet dei natanti, quando la fame dei naviganti chiama a cucinarsi qualcosina alla brace, direttamente sui pavimenti pubblici.
Si vede benissimo quel barcone battente bandiera anglosassone, su più piani, il personale con l’uniforme che lavora al mantenimento del livello della pulizia, lavando, lucidando d’ottima lena; trasporta anche vasellame e beni ristoratori di quarta, quinta necessità dentro la pancia d’una balena dalle mille e una stanza. Arriva una ragazzina bionda colorata a ondeggiare sulle ruote di uno skateboard, succinta, appariscente e capellona; senza graziarsi d’altro lascia la tavola d’un balzo oltre la poppa, percorre scalza qualche decina di metri lungo la fiancata della nave, poi scompare nel fondo d’una vetrata dorata, made in London.
Mi chiedo quanto possa costare quell’affare sul mare e conteggio quante macchine servirebbero per comporne tutta la mole, ragionando sulla moltiplicazione del costo della mia Micra per tante volte quante ne basterebbero per riempire tutte le sue dimensioni: larghezza per altezza, superficie, profondità… Mi perdo subito, ma l’impressione è che costi davvero tanto quel palazzo galleggiante; quanto non riesco a calcolare.
Che bello però! M’immagino là sopra a governare e dirigermi dove più mi piace, e senza più pensare quanto potrei spendere. È chiaro, non avrei limiti io. Che sogno! Mi ristabilisco sentendo scricchiolare la carena di una carretta marina posta non so come nel mezzo delle barche d’alto bordo, dal lignaggio che sovrasta qualunque mezzo natante sottostante, superandone persino la presenza sensibile, sbiadita dal sole e buona soltanto per l’immagine delle vecchie cartoline. Ne discendono dei giovani dagli abiti poco misurati, dalle ricciute chiome corvine e dai monili d’etnie lontane: nulla a che spartire con la dinastica londinese frequentatrice dei ponti più nobiliari. Parlottano, poi se ne vanno salutandosi calorosamente su delle bici rimediate, verso le vie del centro cittadino.
Quanta gente potrà portare lo yacht che mi sta di fronte? Parecchia a giudicare dal numero dei boccaporti. Vedo giungere numerose famiglie con tanto di prole, magari ignara dell’esistenza dell’infinito marino, dondolando sui passaggi proibiti delle imbarcazioni da diporto, prendersi le stanze e levare l’àncora per una gita fuori portata, adagiando le proprie valigie e gli zainetti dei bambini nelle stive dove giacciono scialuppe d’ogni genere, mai servite; ma sto sognando. Nessuno farà mai salire quella gente, tutta quella gente. Nessun proprietario di tali barche s’armerebbe della buona volontà necessaria per tollerarne l’invasione, lasciando toccare, devastare quelle preziose barche dall’orda dei piccoli che gridano, si infervorano, finendo per sbavare dalla voglia di sentirsi come corsari.
Tuttavia ci starebbero comodi. Sicuri che nessuno, proprio nessuno possa voler donare quegli spazi di avventura, quei tempi d’infinito sulle chiglie dei suoi battelli? Che nessuno pensi di dedicare dei viaggi, di regalare degli itinerari per chi non potrebbe diversamente credere di poter solcare tutti i mari?
Già ci sono dei traghetti dedicati per questo. Si trovano, pieni di persone che possono comodamente godersi la navigazione, e portarsi pure la prole, le mogli, i nonni e le zie… Eppure mi chiedo lo stesso se non esista qualche capitano, qualche comandante che aspiri a una frequentazione più popolare delle sue lussuose cabine galleggianti, che possa caricarsi decine di sconosciuti desiderosi di scoprire la propria america a bordo della caravella più bella, grande e sicura che conoscano, vedendosela aprire davanti come visitatori i più graditi, i più diversi, i più speciali. Sogno: non accadrà mai. Comunque li vedo; quelle file di personaggi, chi con il bastone, chi con le stampelle e la carrozzina, chi composto mentre sta attendendo sulla banchina, vociare prima di venire presa a bordo, sistemata, accolta sopra ai panfili.
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