Conte che lascia la Juve a quel modo, la Juve che se lo lascia sfuggire così. Esempio di calcio che non va, d’impresa che non funziona, di Paese che delude. A proposito d’immagine, una seconda sconfitta mondiale, dopo quella brasiliana. Il nostro miglior club e il nostro miglior allenatore che si piantano appena iniziata la stagione ’14/’15: una formidabile corbelleria. Pagheranno entrambi:la Juve in termini di prestigio, Conte in termini di credibilità.
Curioso che tutto accada nel giorno in cui, a Berlino e Monaco di Baviera, i tedeschi celebrano l’iride dell’efficienza organizzativa, del talento individuale che meglio non si potrebbe esaltare in un’avventura di gruppo, della costanza, precisione, serietà nel programmare. L’esatto contrario di quanto accade da noi: la Juve è l’iceberg, sotto vi sta ben di peggio. Mamma mia, che figura: i campioni d’Italia (tre volte di fila) che passano mezza estate da quasi separati in casa col tecnico dei record, e poi subiscono (provocano, suggeriscono, accettano?) il divorzio a ritiro precampionato già avviato. Mai visto, a quella nobile latitudine. Ma forse anche altrove, al momento la memoria non ci soccorre.
Una fila di errori, dalle due parti.La Juve che non vuole prendere atto, nel maggio scorso, della riluttanza del coach a rimanere, se non gli comprano fuoriclasse da milionate di euro. Il coach che pretende l’impossibile dalla Juve, società quotata in Borsa: che sfori il tetto di bilancio. Tutt’e due affatto realistici, dilettanteschi, di deludente mediocrità. E infine non rispettosi dell’affetto d’una moltitudine quasi sterminata di tifosi: non così ci si comporta quando si reggono pesanti (e insieme gratificanti) responsabilità.
Poi una spruzzata d’antieticità, il profumo amarognolo che non manca mai. Ci pensa Conte, a diffondere lo spray. Ha in tasca un contratto che scade nell’estate del 2015, e che è tenuto a osservare. Invece no. Fa le bizze: anziché ottimizzare il materiale che l’azienda gli passa, ne pretende di diverso abbondante costoso, altrimenti tanti saluti. Bella logica professionale, economica, perfino politica se vogliamo, perché gestire una squadra di calcio è un po’ come esercitare la leadership d’un partito. Spettacolare dimostrazione che i diritti si reclamano, e i doveri si ignorano. Per non dire infine dello sprezzo verso la posizione di privilegio occupata dagli idoli (brutta parola, però rende il diffusissimo concetto) del football: godono d’una inestimabile fortuna che esige un contraccambio di senso della misura, d’immedesimazione nei triboli popolari, d’omaggio umile e costante al ruolo svolto. Macché, una pedata alla sorte benigna, e il tackle ruvido che va impattare sulla massa ingenua fanciullesca adorante dei tifosi, facendogli indubitabilmente male.
Roba da rosso diretto, espulsione strameritata. Ma ci illudiamo. La nazionale (il top del top, quattrini a parte: peraltro non una mancia riservata al citì) è pronta a trasformare in suo nuovo simbolo il protagonista d’un canovaccio vecchio, superato, insopportabilmente esplicativo dell’italianità peggiore. Siamo questa roba, ahinoi, e ci ridono dietro. Davanti, il solito orizzonte dalla linea confusa, incerta, spezzata.
Ps: che il sostituto di Conte si chiami Allegri, è una beffarda tristezza.
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