Si dice, lo dicevano già i Padri della Chiesa, che i soldi siano lo sterco del diavolo. Lo stesso papa Francesco ha sottolineato, con tale espressione, come l’amore per il denaro sia fonte di egoismi e annulli la pietà verso i fratelli.
Vero è che se la ricchezza non è peccato, peccato è invece l’elevarla a massima aspirazione della vita e soprattutto lo è il cattivo uso che se ne fa. La discriminante sta dunque nell’uso e nel fine, perché se la ricchezza genera bene, ed è costruita nel bene, può sicuramente ritenersi un dono di Dio. I nostri difficili tempi ci offrono più che mai la possibilità di farci un’idea di chi sa, oppure no, fare buon uso di essa.
Anche nel cerchio piccolo di una città come Varese, considerata un tempo località di villeggiatura dall’aria buona – molti i milanesi ricchi in cerca di tranquillità, stabilitisi poi – è possibile capire come gli accadimenti prendano oggi la piega, e siano specchio, di una triste realtà. Quella di una mentalità, di una disposizione di testa e di cuore, rivolta sempre più al personale interesse: considerata nell’ottica cristiana, certamente un peccato contro Dio e contro gli uomini. Ma, anche per chi non avesse remore di ordine religioso o morale, da configurarsi come un’inclinazione negativa, perdente, a svantaggio del comune interesse. In tempi di riconosciuta e diffusa difficoltà, non solo quella puntualmente registrata dalla quotidiana, individuale microeconomia, l’acceleratore emotivo tende invece purtroppo a impazzire e a spingere catastroficamente verso la difesa di sé. Così ciascuno guarda al proprio orticello, per piccolo o grande che sia, osserva con sospetto ogni diverso movimento, ascolta con diffidenza il passo dello straniero che si avvicina. E se possiede un qualcosa, attività o rendita, o bene, immediatamente misurabile e traducibile in moneta sonante, desidera che quel suono si faccia sempre più sentire, per timore della svalutazione, per ripianare la maggior richiesta di denaro che sempre più spesso gli arriva, nel procurarsi beni o servizi, dal negoziante, dal professionista, dall’ artigiano, dal ristoratore, e via dicendo.
A Varese come altrove, i tanti fattori finanziari ed economici sommati, la bolla americana, la concorrenza della globalizzazione, la svalutazione monetaria ma anche quella della politica nazionale, aggravata dalla diffidenza e dai maggiori interessi dei partner europei, hanno portato via via a una crescente diffidenza e alla paura. E la paura di guadagnare di meno, di veder diminuire gli introiti, oppure la richiesta di una trasparente tassazione esercitata con mezzi di pagamento alla luce del sole, come quella tramite Pos, ultima in ordine di tempo, hanno fatto salire l’asticella dei conti di tanti, presentati sempre alla fine al più debole anello della catena. E allora una spremuta al bar della città, o una coca cola al Sacro Monte, possono costare come in piazza San Marco a Venezia. I ticket dei parcheggi sono più alti che a Cortina. E i canoni di un appartamento o di un negozio in affitto fanno pensare all’aria della milanese via Montenapoleone. Per non parlare dell’ esoso onorario di non pochi professionisti, medici, notai, avvocati, delle cui consulenze spesso si ha necessità. Chi li richiede dovrebbe tener conto dei ben più modesti introiti di lavoratori dipendenti o pensionati, e venire incontro a quanti davvero non ce la fanno a saldare salate parcelle professionali.
Che Varese fosse città notoriamente cara, ben più cara di Milano, lo dicevano già Montanelli e Piovene in tempi non sospetti, ma ora “non è più quel tempo e quell’età”, direbbe il poeta. Il risultato è che chi non ce la fa rinuncia al bar sotto casa, rinuncia a quel qualcosa in più. Fa i suoi acquisti al discount anziché nel negozio del centro. E chi desidera aprire un’ attività commerciale o desiste, spesso a favore dell’ennesimo bazar o compro oro, o apre in periferia, solo là dove la richiesta appare ragionevole. Anche quanti arrivano da fuori in cerca di casa la prendono lontano dal centro, così appartamenti e negozi restano sfitti, e i palazzi finiscono per essere in parte disabitati o accentrati nelle mani di pochi. Molte sono le saracinesche abbassate, incupite e abbandonate alla sempre più pesante e pressante attenzione di ladri e vandali, di graffitari e piromani. Come tristi e recenti storie di incendi e furti, che sconvolgono il cuore di Varese e la vita dei cittadini residenti, ben dimostrano.
Ma è davvero questo che vogliamo tutti noi? Necessita una riflessione, un confronto ampio sull’argomento, e su quale ricchezza vera si debba puntare. Anche per il poeta Carducci c’era il tempo bambino di tirar sassi con la fionda a cipressetti e uccelli, e il tempo adulto di riflessione e di attenzione agli altri. Se non vogliamo farlo per venire incontro al nostro prossimo, facciamolo almeno per amore di intelligenza, il vero e solo talento che già nel suo etimo, intelligente, cioè colui che sa comprendere, che sa vedere e entrare dentro alle cose, dovrebbe mettere d’ accordo, e soccorrere, tutti. Con magnanimità e lungimiranza, con umanità e giusto calcolo, si possono raggiungere migliori risultati in ogni comunità desiderosa di essere viva e degna di tale nome. Con la miopia dell’egoismo si punta al suicidio sociale. Prendiamone tutti coscienza, facciamoci carico del destino dei nostri figli.
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