In questi tempi in cui si discute accanitamente di immigrazione troppo spesso con toni dettati dal timore più che dalla conoscenza della realtà, vale la pena di ricordare ancora una volta che anche dai nostri paesi si partiva un tempo per terre lontane, alla ricerca si una vita migliore (e se solo ci si guarda un po’ attorno, i giovani partono ancor oggi in cerca di lavoro, anche se in condizioni fortunatamente molto meno disperate di un tempo).
Quando un secolo fa, il 19 giugno del 1914, un disastro minerario a Hillcrest costò la vita a centoottantanove minatori, otto di loro venivano dal varesotto: Ermenegildo Bodio, Luigi e Giuseppe Parnisari da Barzola; Carlo Casagrande, Alberico e Baldo Tamborini da Mornago, Giuseppe Marcolli e Luigi Rossi da Montonate. Erano ragazzi sui vent’anni che in miniera facevano i lavori più duri e meno specializzati.
E se appena appena si guarda negli archivi o nei vecchi giornali (i testimoni di quei tempi sono ormai tutti morti) dalle pagine escono con vivezza le storie, minime, ma significative di tante persone, uomini e donne, che hanno affrontato vicissitudini per noi oggi impensabili.
Agli inizi di ottobre del 1909 una ragazza di diciassette anni di Menzago, Emma Pozzi, si imbarcò per New York nel porto di Le Havre in Francia. I documenti non ci dicono come fosse arrivata fino lì, ma possiamo immaginare che in quel momento avesse già un viaggio faticoso alle spalle, da sola, o forse con qualche compaesano. La sua destinazione ultima era Frank, un minuscolo insediamento minerario tra le Montagne rocciose canadesi nell’area del Crowsnest’s pass. Lì l’aspettava il fidanzato Enrico Martegani, un giovane di Menzago partito quasi due anni prima per raggiungere il fratello maggiore Carlo nel lavoro durissimo delle miniere.
La nave,La Provence, una di quelle che continuamente facevano la spola tra le due sponde dell’Atlantico, poteva portare più di mille e trecento passeggeri, ma in quel viaggio ce n’erano poco meno di mille. Tra loro la maggior parte erano emigranti, tantissimi italiani del Nord – lombardi, piemontesi, veneti e friulani -, qualche suddito austriaco, tra cui anche dei trentini, e poi qualche francese, qualche svizzero e qualche tedesco, persino alcuni turchi. Molte erano le donne che viaggiavano sole, mogli che andavano a raggiungere i mariti, spesso accompagnate da tre o quattro bambini, e altre ragazze dirette ad un matrimonio oltreoceano.
Possiamo immaginare che Emma avesse fatto amicizia con Giacomina Schianni, partita a ventidue anni da Casale Litta per raggiungere il fidanzato Pietro Colombo in un altro villaggio minerario del Canada, Michel, nella British Columbia. E poi a bordo troviamo un Pio Montalbetti di Cimbro, ormai sposato e residente a Michel con il fratello Anselmo, che forse aveva fatto un breve viaggio in Italia per visitare il padre Alessandro. Con lui tornava in Canada anche Carlo Lozza che aveva lasciato a Cimbro la moglie Giuseppina. E poi c’erano, sempre diretti alle miniere canadesi, Carlo Bielli di Taino, che aveva solo sedici anni e andava a raggiungere la sorella Maria, Francesco Montonati da Casale Litta cugino dei Montalbetti, Enrico Colombo di Villadosia. E probabilmente ce n’erano degli altri, difficili da rintracciare perché i loro nomi e quelli dei paesi d’origine sono stati storpiati dai funzionari all’arrivo a Ellis Island, l’isolotto alla foce del fiume Hudson nella baia di New York che dal 1892 costituiva il principale punto d’ingresso per gli immigranti che sbarcavano negli Stati Uniti.
Oggi Ellis Island è un Museo dell’emigrazione, che rende disponibili, anche online, gli elenchi delle persone che vi sbarcavano. Se si scorrono questi elenchi si trovano molti cognomi e molti paesi del Varesotto. Se poi si osserva la destinazione si vede che quelli delle valli e in particolare della Valceresio si dirigevano preferibilmente verso le cave di pietra del Vermont, mentre dai paesi tra il lago di Varese e il lago Maggiore si partiva appunto per le miniere del Canada. La logica di queste partenze era quella che ancor oggi guida l’emigrazione. Prima partivano i più avventurosi, in genere uomini già adulti spesso anche con un carico di famiglia. Poi man mano che il passaparola faceva conoscere le nuove opportunità andavano a raggiungerli parenti, amici o vicini, anche giovani o giovanissimi, talora con l’intenzione di guadagnare qualcosa e poi tornare a casa. Infine, una volta che le prospettive di lavoro si facevano più chiare e stabili, alcuni decidevano di restare si facevano raggiungere dalle donne e dai bambini.
Emma arrivò ad Ellis Island il 23 ottobre. Il passaggio in Canada le richiese un’altra settimana. Il 31, appena arrivata, sposava il suo Enrico nella Missione cattolica di Frank, alla presenza di due testimoni dai cognomi varesotti: Enrico Pozzi e Isidoro Montalbetti. Date le circostanze il sacerdote li esentò dalle pubblicazioni, poi inviò il certificato di matrimonio al parroco di Menzago, che lo infilò nel registro dei battesimi della parrocchia, dove ancora si trova. In Canada ebbero tre figlie, poi si trasferirono in California. Quando Emma morì, nel 1959, era ormai cittadina americana.
Anche altri emigrati in Canada si trasferirono dal distretto minerario verso zone dove la vita era meno dura; alcuni, pochi, tornarono in Italia, molti invece si fermarono. Ma ci fu anche chi fece fortuna, e da vecchio, raccontando la sua vita in un libro dedicato a ricostruire il tempo dei pionieri nelle miniere canadesi, ricordava con nostalgia la sua infanzia nelle nostre campagne, che nel ricordo diventavano una terra piena di sole, di olivi e di vigneti.
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