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Editoriale

LA FUGA DELL’ASINELLO

MASSIMO LODI - 24/12/2011

 

La "Fuga in Egitto" di Guttuso al Sacro Monte

Qualche giorno fa è accaduto un episodio curioso. Venerdì 16 dicembre, pomeriggio. Sole che declina, freddo che punge. Sulla strada verso il Sacro Monte, località Prima Cappella, gli automobilisti lampeggiano fra di loro coi fari. Non per segnalare la presenza d’un blocco di polizia. Per indicare il transito d’un asino. Un asino? Un asino, proprio un asino. Clamorosamente un asino. Clamorosamente perché, essendo apparso sulla carrozzabile fuori dell’arco che immette alla Via Sacra, l’animale induce alla fantasiosa immagine d’una sua clandestina uscita dalla Fuga in Egitto. Dall’opera d’arte guttusiana di fianco alla terza Cappella.

Eccesso di simbolismo? Forse eccesso di meraviglia. Però giustificato: chi si aspetterebbe d’incrociare un asino lì? Il giorno dopo, nessuna notizia su nessun giornale. Eppure, era una notizia. O meglio: un annunzio. Basta volerla leggere in un certo modo. E, più che volerla, essere obbligati a leggerla in un certo modo dalla reazione istintiva a quel vedere. Per esempio cogliendovi lo smarrimento marchiante dell’epoca odierna: smarrito l’asino, su un percorso sconosciuto. Smarriti noi, su percorsi ben noti. Per esempio l’imprevedibilità: imprevedibile ciò che gli è capitato, ugualmente come ciò che ci sta capitando. Per esempio l’incertezza della meta (del destino): il ciuco che vaga alla ricerca d’un ricovero, l’humanitas varia che dovrà ondeggiare a lungo prima di trovare l’ormeggio sicuro.

Stiamo esagerando? Sì, stiamo esagerando. Ma è un segno del tempo. Di questo tempo. Tutto il parlare di manovre e di sacrifici, di fragilità e di cupezze, di decadimento e di poveruomini ci fa scorgere ovunque il riflesso di debolezze, angosce, sofferenze. Ti passa vicino un somaro invece d’un pullman, e il pensiero viene trasportato lontano, verso una stazione finale ignota e che ti ghiaccia l’anima. È come se l’asinello, insellatasi la fantasia, avesse abbandonato non la “Fuga in Egitto” del gran maestro pittore, ma il paesaggio del tradizionale (bello, caldo, confortevole) presepe natalizio per venirci a raccontare che lo scenario è cambiato. La realtà non è di cartapesta. Il futuro s’intravede diverso dal modo in cui l’avevamo immaginato (dal modo in cui ce l’avevano predetto).

Pare che qualcuno abbia provato, al tramonto del sole di quella misteriosa giornata, a seguire il trotticchiare della sperduta bestia sacromontina. Ma, dopo averla vista entrare nel bosco, ne ha smarrito le tracce, infine abdicando all’impresa per l’incedere del mantello serale e nonostante la collaborativa disponibilità del chiaro di luna.

Dall’indomani, chi passa davanti all’acrilico della terza Cappella ha come l’impressione d’un dissolvimento dei colori alla luce abbagliante del dicembre prealpino. Anche come d’un dissolvimento delle figure. Soprattutto della figura dell’asinello. Quasi che si fosse liberato del peso portato in groppa, trasferendolo sui visitatori del luogo. Ma è un peso che, all’umile stupore del pellegrino e dello sfaccendato che salgono per gli antichi ciottoli, appare sorprendentemente leggero. Di sicuro a causa dell’aria di montagna: aria pura, di cui abbiamo vitale necessità, e che talvolta fa miracoli.

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