M’è stato chiesto che cosa pensassi di un’esortazione che nei giorni scorsi, mediante il quotidiano La Stampa, il ministro della difesa Roberta Pinotti ha rivolto agli italiani: «Scriveteci per aiutarci a costruire il futuro delle Forze armate». Ebbene, avremmo potuto sintetizzare la risposta dicendo che pensiamo tutto il male possibile dell’inedita iniziativa perché mai marketing strategico e populismo sono andati così impudicamente a braccetto. Crediamo, però, che i lettori abbiano diritto a una risposta più motivata e articolata.
Intanto saremmo curiosi di capire quale aiuto il ministro si aspetti di ricevere dalla lettera di un’eventuale massaia di Canicattì sull’evoluzione delle dottrine strategiche e dei fattori di potenza tra gli Stati perché, poi, è su questi “semplici” temi che si programma il futuro degli eserciti. E i suggerimenti sull’indirizzo e sui nuovi compiti da assegnarsi alle Forze armate nell’ambito dei mutamenti intervenuti nel quadro politico e strategico europeo, mondiale e mediterraneo, dovremmo aspettarceli da qualche odontotecnico di Buscate per caso? Peraltro, non si può seriamente pensare di poter costruire il futuro di quelle Forze armate che, nel frattempo, si sono smantellate anche con l’entusiastica partecipazione del partito da cui proviene lo stesso Ministro della difesa. Il Partito comunista Italiano, infatti, fino agli anni ’70 fu accesamente antiatlantico e contro l’organizzazione e l’assetto disciplinare che le Forze Armate si erano date dopo il secondo conflitto mondiale e soltanto quando era alle viste il “compromesso storico” divenne più possibilista, rendendosi conto che anche la causa dei militari poteva tornare utile per scrollarsi di dosso ottant’anni di vetero-marxismo, come dire di un fallimento storico.
Siccome pare di capire che il ministro si ponga il problema di quale futuro aspetti al nostro strumento di difesa, bastava che si facesse portare dal proprio aiutante di campo il diagramma con l’evoluzione delle nostre Forze armate negli ultimi trent’anni per rendersene conto: fino agli anni Ottanta, escludendo carabinieri e guardie di finanza, i militari italiani erano all’incirca 350.000 unità; oggi sono poco più della metà.
Certo, gli scenari geo-strategici mutano, le risorse finanziare a disposizione per la difesa anche, e con essi la dottrina degli eserciti ma, stante la cronica assenza del parlamento sul tema, almeno si stabilisca chi debba realizzare la politica di difesa dello Stato, indipendentemente da quanto durano in carica i governi e lo stesso Parlamento, perché la difesa del Paese non può avere soluzione di continuità.
Pertanto, invece di sollecitare gli italiani a trasformarsi in tanti von Clausewitz dalla letterina facile, il signor Ministro della difesa farebbe bene a decidere assieme al governo, al parlamento e ai vertici militari se le ragioni e le funzioni delle Forze armate del futuro debbano essere, o no, quelle previste dalla Costituzione e che, in sostanza, dovrebbero essere principalmente tre: 1) difesa dei confini del Paese da minacce esterne, specialmente da quelle che vanno prendendo corpo nel Mediterraneo Orientale; 2) mantenimento dell’ordine pubblico interno, unitamente alle forze di polizia, e il soccorso alla popolazione civile nel caso di catastrofi nazionali, calamità naturali, oppure di sovvertimento dell’ordine pubblico; 3) educazione del cittadino alla vita collettiva e alla disciplina intese come sacrificio dell’individuo al servizio della comunità. Anche, e a maggior ragione, adesso che non v’è più l’esercito di leva troppo frettolosamente abolito.
Che una soltanto di queste tre funzioni sia poi assolta nel Canale di Sicilia con la cosiddetta operazione Mare nostrum è dubbia ma questo è un altro discorso. Non si venga a dire che tutti i problemi delle Forze armate nascono da una cronica penuria di soldi perché i problemi della difesa sono anche i soldi ma non soltanto essi. Negli anni Settanta, ad esempio, le spese per la difesa incidevano per il 3,3% sul nostro Pil e oggi, invece, per l’1,8%: sono ancora tanti soldi se si considera che le Forze armate nel frattempo si siano dimezzate. Che prospettare il futuro della difesa fosse un tantino più complicato che andare a fare la passerella dai nostri due marò ostaggi dell’India (a proposito, quando li riportiamo a casa quei poveri ragazzi?), il signor ministro poteva capirlo andando a leggersi alcuni passaggi dell’audizione del capo di stato maggiore della difesa da parte delle commissioni difesa di Camera e Senato il 21 novembre 2013: «L’insostenibilità della situazione attuale è comprovata da dati oggettivi che indicano come, a fronte del 71% del bilancio della Funzione Difesa assorbito dai costi per il Personale, solo l’11% sia oggi disponibile per sostenere l’operatività. […] In mancanza di ulteriori e strutturali risorse finanziarie perla Difesaè dunque urgente dare effettività allo spirito innovativo della revisione, già in parte anemizzato dalla sovrapposizione della “Spending Review”. A questo obiettivo rispondono i decreti legislativi in discussione, che prevedono consistenti tagli alle dotazioni organiche del personale militare e civile e la riorganizzazione/soppressione di strutture operative, logistiche, formative e territoriali…».
La conclusione del capo di Smd, com’era prevedibile, fu molto “istituzionale”: «… ribadendo l’importanza strategica della motivazione del personale concludo il mio intervento, perché essa è il prodotto di un’equazione complessa che mette a sistema non solo le legittime rivendicazioni salariali e di carriera, ma anche l’orgoglio di poter servire in un ambiente stimolante e professionalmente appagante, “fianco a fianco” e a confronto con Forze Armate di Paesi amici ed alleati, senza complessi di inferiorità, come oggi accade, e con positivi ritorni di esperienza lavorativa ed umana».
Per quanto istituzionale la conclusione del capo delle nostre Forze armate fu, almeno in parte, condivisibile anche se egli non poté dire che i soldi non sono l’unico problema della compagine militare che, ormai si è instradata verso una progressiva perdita d’identità perché non vi sono in Italia istituzioni (in primis il parlamento…) capaci di suscitare/ispirare sentimenti patriottici o che incarnino i simboli morali, storici e spirituali della nazione e, perché no, della difesa della Patria. E, comunque, è giunta l’ora che un bell’esempio di patriottismo incominciasse a darlo anche il vertice militare ritrovando il perduto spirito di servizio e il senso della misura.
In Italia abbiamo 425 generali, dove ne basterebbe un centinaio; abbiamo più generali di corpo d’armata degli Stati Uniti che, però, hanno delle Forze armate che sono dieci volte più numerose delle nostre; abbiamo più generali di corpo d’drmata che corpi d’armata. Non possiamo certamente continuare di questo passo e chiedere poi ai sottoposti, che sono innanzitutto cittadini e contribuenti, di fare sacrifici, di sacrificare la vita quando occorre, perpetuando nel frattempo il ridicolo paradosso che, a fronte di 94mila tra ufficiali e sottufficiali, la truppa sia di appena 84mila unità… Come dire che abbiamo più comandanti che comandati!
E per carità di Patria non andiamo a mettere il dito sull’abissale e indecente differenza di stipendio esistente tra i vertici militari e la base. Molti graduati di bassa forza sono costretti a vivere, con famiglia a carico, in città come Milano, Torino e Aosta con stipendi di poco superiori ai 1300 euro e per questa ragione spesso essi sono costretti a rimandare i congiunti presso la famiglia di origine vivendo così da divorziati geografici per anni. E, poi, i nostri vertici militari fingono di meravigliarsi per l’altissimo numero di domande di trasferimento per il sud prodotte dai militari dei loro reparti perché la vita a sud del Paese costa molto meno che al nord dove con lo stipendio di un graduato si fa letteralmente la fame se non lavora anche la consorte.
Al termine della sua audizione del 21 novembre scorso il capo di Smd ha indicato una delle possibili soluzioni al caos che regna nella nostra compagine militare (pensate che l’armeria di un reparto è in carico a tre enti/uffici diversi: alla direzione di artiglieria per le armi; al commissariato per le buffetterie e all’ufficio del casermaggio per i tavoli e le rastrelliere) spiegando che è «… necessario superare l’eccessiva frammentazione di competenze dell’area tecnico-operativa e tecnico-amministrativa del Dicastero».
Ci rendiamo conto che le letterine degli italiani eventualmente dirette al ministro sul futuro della difesa sarebbero sicuramente meno disincantate di questa disamina magari incompleta ma certamente onesta, ma non ci risulta che sottacendo i problemi essi siano capaci di risolversi da soli.
V’è poi il padre di tutti i problemi riguardanti la difesa del Paese, anche se siamo certi che non vi accenneranno mai, né i vertici militari, né lo stesso ministro per una questione di politically correct: in questo preciso momento storico l’Italia non può più permettersi di spendere 1,4 miliardi di euro ogni anno per le missioni militari fuori area e altrettante per le connesse attività di Civil Military Cooperation che, peraltro, non sono servite a niente giacché in Irak, in Afghanistan e in Libia il fondamentalismo sta per averla vinta, nonostante i soldi spesi, nonostante i 53 caduti militari che ci siamo portati dall’Afghanistan in casse di lucido mogano.
Per finire, se dovessimo rispondere all’esortazione del ministro e inviarle una letterina sul futuro delle nostre Forze armate la scriveremmo così: «Signor ministro, il futuro della difesa del nostro Paese è nella politica del piede in casa per almeno dieci anni e in una più equa retribuzione di un personale che, nonostante tutto, è aduso a obbedire e a morire in silenzio come solo i grandi soldati sanno fare. Faccia in modo che la classe politica sia degna di loro».
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