Con cinquanta centesimi in aggiunta al prezzo del quotidiano, questa mattina, ho comprato “La felicità”.
Non ho potuto evitare di ricordarmi che più di cinquant’anni fa si cantava “La felicità costa un gettone, per i ragazzi del jukebox / la gioventù la compra per cinquanta lire e nulla più”.
Quanto è più difficile affrontare Seneca che Celentano! Non per il costo, apparentemente venti volte tanto, e nemmeno per la fatica della lettura: in fondo è un libretto breve, sebbene avrei gradito una pur modesta introduzione e qualche nota di chiarificazione. È che non c’è proprio nell’aria l’idea che la felicità sia possibile. Rassegnazione e cinismo o una pazza violenza sugli altri e su se stessi. Il tizio di Motta Visconti (non voglio nemmeno ricordarne il nome) dopo la tragedia chiede “datemi il massimo della pena”. Il desiderio impossibile, l’impossibilità della felicità, il massimo dell’orrore il massimo della pena. Seneca, o Eschilo ci avrebbero scritto sopra da par loro. Ma leggiamo qualche brano di Seneca, preso all’inizio, quasi a caso (datemi tempo per finirlo).
“Gallione, fratello mio, tutti desideriamo la felicità, ma, quando si tratta di capire quale sia il modo per raggiungerla, allora brancoliamo nelle tenebre. E’ così difficile riuscire ad ottenerla che più la cerchiamo, più ce ne allontaniamo…” “La cosa peggiore, come fanno le pecore, sarebbe seguire il gregge di coloro che ci precedono, perché andremmo non dove dobbiamo arrivare, ma dove vanno tutti. Questa è la prima cosa da evitare… Sono gli esempi degli altri che ci danneggiano: potremo salvarci solo se ci allontaneremo dalla folla. Il popolo, invece, a dispetto della ragione, si ostina a difendere i propri errori. Perciò, come avviene nei comizi, nei quali, dopo che si è spento il volubile favore popolare, sono proprio coloro che li hanno votati a meravigliarsi dell’elezione dei pretori, così noi, indifferentemente, approviamo o disapproviamo le medesime cose; questo è il risultato di ogni giudizio, quando lo basiamo sull’opinione degli altri”.
“Ma quando si tratta della felicità non possiamo comportarci come nelle votazioni, seguendo la maggioranza, perché questa, proprio perché è di parte, è peggiore… la folla dà esattamente testimonianza del contrario, ossia che proprio lì sta il peggio”.
Seneca non sembra confidare granché nella democrazia, quella dei suoi tempi era molto apparente: una forma superficiale all’ombra del Princeps (dopo Augusto ebbe in sequenza Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone, che lo spinse al suicidio stoico), e io nemmeno (dopo De Gasperi ho avuto Fanfani e Moro, Andreotti e Craxi, Berlusconi e Prodi, forse dovrei lagnarmi di meno). Ho giusto preso atto delle ricerche di due diversi sondaggisti, che concordemente affermano e dimostrano non solo che una buona parte del voto deriva dall’impulso, sempre meno da una consolidata appartenenza o da una meditata valutazione dei programmi elettorali, ma pure che le scelte variano sensibilmente nello spazio dei pochi giorni che intercorrono tra il primo turno e il ballottaggio, quando c’è.
La cosa che più mi ha stupito, che spiega le sorprese dei ballottaggi in alcune città, è che non si verificano semplicemente maggiori o minori convergenze da parte delle liste escluse dal ballottaggio e nemmeno la propensione all’assenteismo elettorale di chi vuole è può godersi una giornata di mare, ma proprio gli elettori si contraddirebbero votando, in buona misura, per la parte che si presentava come avversa al primo turno. Non mi meraviglio mai delle scelte irrazionali degli elettori, ma non mi era mai capitato di constatare una volubilità così accentuata. Devo farmene una ragione: anche in questi comportamenti gioca forte una ricerca di soddisfazione immediata, più rancorosa che piacevole, più contro che per qualcuno o qualcosa, per una specie di vendetta, più che per una ragionevole speranza.
Da tempo ho imparato, a mie spese, a non riporre eccessiva fiducia nella politica, o per meglio dire, nello Stato, pur senza arrivare alla conclusione di Seneca, che la felicità sta nella virtù individuale. Quindi non sono disposto a pagare un prezzo per la felicità che sia superiore ai cinquanta centesimi del libretto o alle cinquanta lire del gettone di una volta, cioè non sono disposto a rinunciare al mio desiderio di compiutezza, di significato e di bene per acquietarmi nella mediocrità della difesa del mio interesse immediato, dello statu quo consolato dalla promessa, elettorale o mediatica, di un prossimo futuro migliore. Meno tasse e più lavoro, va benissimo (se ci riusciranno), magari vinciamo anche il Mondiale o l’Oscar, ma per avere davvero la felicità cui ho diritto, forse il segreto è continuare a desiderarla.
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