Passeggiando lungo il Gianicolo, lasciando alle spalle Porta San Pancrazio, ci si imbatte in un curioso edificio: la facciata solitaria di una casa in tardo stile rinascimentale che nasconde una vecchia cisterna d’acqua dell’Acea. Come le strutture di legno di Cinecittà: dietro non c’è una costruzione. È conosciuta come la ‘casa di Michelangelo’. Così recita una targa affissa davanti, ma in realtà è la trasposizione della casa a Piazza Macel de’ Corvi vicino al Vittoriano dove per mezzo secolo Michelangelo Buonarroti visse. Roma, dopo Firenze, ne ricorda i 450 anni dalla morte con una mostra ‘Incontrare un artista universale’ inaugurata la scorsa settimana ai Musei capitolini e aperta sino al 14 Settembre.
L’idea di fondo è che il mondo conosca Michelangelo per la Cappella Sistina, la Pietà o il Mosè ma ignori gli altri aspetti d’eccellenza dell’artista come la poesia o l’architettura.
D’altronde basta passare anche parzialmente in rassegna un elenco delle sue opere per capirne la grandezza e la genialità: la Madonna della Scala (esposta nella mostra ), il San Petronio, il Cupido dormente, il Bacco scolpito nel giardino di Jacopo Galli, la Pietà di San Pietro, il gigantesco Davide a Firenze, la Sacra Famiglia ritratta per Agnolo Doni, il cartone dell’Episodio della Cassina in competizione con Leonardo, il Giudizio Universale, il Mosè, l’Aurora, il Crepuscolo, il Giorno, la Notte delle cappelle medicee, le varie Pietà scolpite per suo gusto, la fabbrica di San Pietro per non parlare poi di tante opere incompiute. La mostra espone oltre centocinquanta tra pezzi, versi e disegni. Compreso un crocifisso ligneo acquistato dallo Stato italiano e di cui molto si è dibattuto sulla reale paternità.
Torniamo alla casa, quella vera. Era situata in un quartiere popolare del centro di Roma. Due camere, un tinello, la bottega al pianterreno e una cantina costituivano l’area dove si muoveva l’uomo che ebbe a che fare con sei Papi. “Vi vissi – scrive – povero come spirto legato a un’ampolla, come la midolla da sua scorza”.
La città del Cinquecento non era una passeggiata. Il quartiere era sporco. La gente scaricava direttamente per strada rifiuti, carogne di animali comprese e usava gli angoli aperti come latrine perché, scrive ancora scherzosamente ma non tanto Buonarroti, “non vanno altrove a cagare tutti quanti”. Lì riposava negli anni eroici della Cappella Sistina quando passava le giornate a dipingere sdraiato su impalcature a venticinque metri d’altezza. E si ritraeva nel medesimo affresco come floscia maschera grottesca. Lì tornava sfiancato dal cantiere di San Pietro dopo avere discusso e litigato con pontefici, architetti e maestranze.
“Dio mi ha creato per non abbandonarmi. Ho amato il marmo ma anche i colori. L’architettura ma anche la poesia. Ho amato con tutta l’anima la vita nella sua pienezza ed ora anche la morte che ne rappresenta la conclusione naturale”. Così lo scrittore americano Irving Stone immagina il commiato di Michelangelo nel suo ‘Il Tormento e l’estasi’. Morto a quasi novant’anni in una casa che sarà distrutta, come tutto il quartiere, per fare posto a uno dei più discussi monumenti dell’architettura della capitale: L’Altare della Patria. E che, fosse stato ancora in vita, l’artista avrebbe immaginato totalmente differente. Ma questo è un altro discorso.
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