Nelle cronache finali del Giro d’Italia appena concluso, soprattutto in quelle televisive, è qua e là affiorato un filo di sciovinismo nei confronti di Nairo Quintana, il ragazzo colombiano di ventiquattro anni che lo ha vinto a mani basse, in pratica con un grande acuto nella cronoscalta al Monte Grappa e un’imboscata ciclistica durante la frazione con arrivo in salita in Val Martello dopo le scalate, in condizioni climatiche proibitive del Gavia e dello Stelvio. Forse è stato il suo tirar dritto nella discesa verso Silandro, senza curarsi dei peraltro cervellotici tentativi della direzione corsa di mitigare con delle safety moto – invenzione made in Italy – la pericolosità della discesa, ad alienargli, sia pure in maniera molto soft, le simpatie dei commentatori. Persino da parte di Sant’Alessandra De Stefano, protettrice di tutti i ciclisti, brillante conduttrice del processo alla tappa e patrona, con il besanese Stefano Garzelli, dell’estroverso e guascone Rigoberto Uran, secondo a Trieste e comunque grande attore della corsa rosa i cui protagonisti ci auguriamo indenni dai controlli antidoping.
La vena moralistica e di morbido sciovinismo è emersa soprattutto durante l’ascesa contro il tempo dove per lunghi tratti la notizia non era, per i cronisti Rai, che il piccolo colombiano stava andando a prendersi il Giro alla sua prima partecipazione ma che l’emergente sardo Fabio Aru, di sicuro avvenire, gli era vicinissimo. Fino all’ultimo chilometro quando, avvertito dall’ammiraglia Movistar, allungava il passo e chiudeva la partita ponendo un rassicurante cuscinetto di secondi tra se e l’italico rivale.
La musica restava la stessa anche durante la discussione post gara con Sant’Alessandra dei ciclisti a sottolineare come l’andino di Còmbita – questo il nome del suo paese aggrappato alle montagne – non avesse dato abbastanza spettacolo lungo le rampe del Grappa. Ma che altro avrebbe dovuto fare questo ragazzo cha da quando è passato professionista a soli diciannove anni, nel 2009, ha collezionato una serie impressionante di vittorie, compreso, per chi è di memoria corta, il Giro dell’Emilia del 2012, conquistato con un volo mozzafiato sulle ultime maligne rampe verso il Santuario di San Luca sopra Bologna? Forse il suo torto, se di torto si può parlare, è di non essere sufficientemente mediatico, telegenico, ma al contrario introverso, chiuso come un pugno, impermeabile alle emozioni. Emozioni peraltro emerse, sia pure con grande sobrietà, a Trieste quando lo ha raggiunto, in un tripudio di bandiere colombiane, la sua famiglia al completo. Gente semplice e alla mano ma prediletta dalla sorte per aver trovato questo figlio timido che scala le montagne con la leggerezza di un condor e il vigore di un lama. Sembra infine possedere questo ragazzo dal viso di terracotta, come altri campioni prima di lui, una certa vocazione alla solitudine, al silenzio, oggi del tutto impopolare. Di Girardengo, di Binda e di Coppi scriveva molti anni fa Giorgio Bocca: “soli e taciturni, i campionissimi”.
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