Una delle Encicliche sociali del Novecento che meno ricorrono alla memoria è la Quadragesimo anno di papa Ratti (Pio XI). A un documento di questo genere il Papa pensava già dagli esordi del suo magistero nel 1922. In realtà lo perfezionò nel corso di nove anni, avvalendosi della collaborazione dei gesuiti dell’Università Gregoriana e francesi. Di suo pugno il passo relativo alle corporazioni (n. 92-95), in cui si pronuncia un’aspra condanna nei confronti del corporativismo di Mussolini, di tutt’altra ispirazione rispetto a quella della Chiesa. Lo scenario di fondo è costituito dalla crisi economica determinata dal crollo di Wall Street (12-14 ottobre 1929), con una disoccupazione via via dilagante, che lascia nel panico milioni di persone. Al contempo si produce la violenta scossa all’ordine sociale, la cui ricostruzione è il tema principale dell’enciclica (figura già nel sottotitolo).
Il Pontefice si rallegra innanzitutto della dinamica del cattolicesimo sociale. La sola voce della restaurazione sta nella riforma cristiana dei costumi. Per quanto concerne la proprietà privata, Pio XI ne sancisce sia il carattere individuale sia quello sociale (l’uso relativo non si configura più come un dovere di giustizia, bensì di carità, per cui il mancato adempimento non fa perdere la proprietà stessa). “Molto più contrario a verità è il dire che il diritto di proprietà venga meno o si perda per l’abuso o il non uso che se ne faccia”.
Tra i titoli di acquisto non va esclusa l’occupazione. La necessità di capitale e lavoro li fa entrambi titolari del diritto di partecipare alla divisione del prodotto. Le ricchezze tanto copiosamente cresciute in questo nostro secolo detto dell’industrialismo non sono di certo distribuite e applicate adeguatamente alle diverse classi di uomini, mentre si deve mirare a elevare il proletariato. Per determinare il giusto salario (nr. 65-76) siano tenuti presenti sia il sostentamento dell’operaio e della sua famiglia, che la necessità dell’azienda e il bene comune. Il contratto di lavoro venga temperato alquanto con il contratto di società. “Così gli operai diventano cointeressati nella proprietà o nell’amministrazione e compartecipi in certa misura dei lucri percepiti”. La componente familiare del salario è presente sia nella Casti connubii sia nella Divini Redemptoris. Con l’auspicio “che gli operai mettano da parte la porzione di salario, che loro sopravanza alle spese necessarie, per giungere a poco a poco ad un modesto patrimonio”. In gioco però è la giustizia sociale, non quella commutativa.
Si invoca poi il principio di sussidiarietà (n. 80). “Come è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria, per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare”. Lo Stato e i migliori cittadini primariamente “mettano fine alla competizione delle due classi opposte” risvegliando e promovendo “una cordiale cooperazione delle varie professioni dei cittadini”. “La politica sociale porrà ogni studio a ricostruire le professioni stesse”, ad evitare lotte ed inimicizie, “di modo che queste corporazioni con diritto loro proprio da molti si sogliono dire, se non essenziali alla società, almeno naturali”. Compito dello Stato è di promuovere il bene comune, il che significa l’abbandono del principio della pura e semplice libera concorrenza delle forze e l’accettazione del principio della giustizia e della carità sociali. Il sistema corporativo italiano ha carattere eccessivamente burocratico e politico e serve a particolari intenti politici, piuttosto che all’avviamento e all’inizio di un miglioramento sociale.
Il compito della riforma sociale, non più circoscritto ai rapporti di classe, si deve estendere a tutta l’economia. Riforme più vaste e profonde assicureranno non solo una diversa distribuzione della ricchezza, ma pure la modificazione dei criteri direttivi e dei centri di comando dell’economia. L’economia di mercato pertanto non viene ripudiata, bensì ritenuta insufficiente. Quanto al socialismo le connotazioni religioso e cristiano sono termini contraddittori. “Nessuno può essere buon cattolico a un tempo e vero socialista”.
C’è il pieno riconoscimento delle associazioni sindacali (n. 32-41). Un ruolo collaborativo è affidato anche all’Azione Cattolica (a quei tempi in netto contrasto col regime, ndr). Si pronuncia un giudizio negativo sulla dittatura economica dei monopoli, dei cartelli o dello Stato. Quanto all’umanizzazione necessaria del lavoro il Pontefice così si esprime: ”la materia inerte esce nobilitata dalla fabbrica, le persone invece si corrompono e si avviliscono”(nr. 134). Tutti provvedimenti intesi a scongiurare gli spaventosi periodi di disoccupazione di massa e l’esperienza della depressione mondiale di fresca attualità.
In merito alla condanna di socialismo e comunismo vanno comunque tenuti presenti nell’evoluzione storica la distinzione tra movimenti storici e ideologie significata dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963, n. 84 e seguenti) e l’invito alla collaborazione attraverso il dialogo di Paolo VI ( Octogesima adveniens, 1971).
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