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Attualità

QUEL GIORNO CON JARUZELSKI

CESARE CHIERICATI - 30/05/2014

Jaruzelski nel 2009

Domenica 25 maggio si è congedato dalla vita, all’età di novant’anni, uno dei grandi e controversi protagonisti della scena politica polacca e internazionale degli anni ’80 del novecento, il generale Wojciech Jaruzelski, balzato all’onore delle cronache il 13 dicembre del 1981 quando dagli schermi televisivi annunciò al mondo intero l’entrata in vigore nel suo paese della legge marziale e dello stato d’assedio. Da quel momento tutti i partiti politici, tranne quello comunista, vennero posti fuori legge, i principali leader sindacali di Solidarnosc e le maggiori personalità dell’opposizione arrestate e imprigionate. Fu un vero e proprio colpo di stato, un drammatico passaggio della storia dopo un decennio travagliatissimo per la Polonia segnato da un’endemica crisi del modello economico comunista, da penuria alimentare, da scioperi continui, da reiterati scontri di piazza con morti e feriti soprattutto nelle grandi aree industriali di Danzica, Gdynia e Stettino.

Quella del generale fu una decisione traumatica che ancora divide l’opinione pubblica polacca e gli storici a livello internazionale. Quel militare che appariva freddo e taciturno, lo sguardo sempre celato dietro lenti scurissime, fu il male minore per la cattolica Polonia oppure fu soltanto l’esecutore diligente di una decisione maturata a Mosca, negli uffici del Cremlino, dove si temeva un contagio fatale per gli altri paesi satelliti? Un interrogativo che da allora ha gravato come una pesantissima ipoteca morale sulla vita di Jaruzelski.

Ebbi l’opportunità di parlarne direttamente con lui – per conto della TSI – nella sua casa di Varsavia, una modesta villetta arredata con sobrietà, circondata da un piccolo giardino, in fondo a un viale alberato non lontano dalle sede di alcune ambasciate occidentali. Era il settembre del ’92 e alla Presidenza della Repubblica gli era subentrato, al termine di una lunga transizione politica, il leader di Solidarnosc Lech Walesa.

Ciò che io temevo di più ero lo scoppio di una guerra civile, come accadde a Poznan nel 1956 e soprattutto a Budapest. La situazione economica era drammatica. Le autorità sovietiche – raccontava con calma il generale – ci comunicarono infatti che se la situazione polacca non fosse radicalmente cambiata, dal primo gennaio 1982 sarebbero state tagliate le forniture di tutte le materie prime: gasolio, metano, cotone e così via. Sarebbe stata la completa paralisi. Per analizzare la crisi del dicembre 1981 bisogna quindi tener conto di tutti questi elementi esterni e interni che portarono a quel drammatico epilogo che io chiamo male minore pur essendo pienamente consapevole che il male è sempre il male.

D. L’eventualità di un ultimatum militare sovietico era reale?

R. Le pressioni erano continue e più il tempo passava più crescevano. Durante le manovre militari d’autunno in Bielorussia ne parlai a lungo con il ministro della difesa dell’URSS, generale Oustinov. Del resto c’erano numerosi e chiari segnali di movimenti di truppe, di preparativi per un intervento militare. Mi sono quindi trovato a dover prendere una decisione molto drammatica e dolorosa. Il punto di non ritorno fu per me l’annuncio di uno sciopero generale per il 17 dicembre, sapevamo che ci sarebbero state sommosse e rivolte e i sovietici non sarebbero stati alla finestra.

D. Quale leader del mondo occidentale appoggiò con convinzione la Polonia del dopo “stato d’assedio”?

R. Un sostegno aperto senza riserve fu quello del primo ministro greco Papandreu. Lo incontrai ai funerali di Breznev e di Andropov, poco dopo lui venne in visita a Varsavia. Ciò non piacque ai paesi Nato ma il leader greco non mutò atteggiamento. Nel’84 venne anche Giulio Andreotti, ministro degli esteri italiano. Tuttavia decisivo fu il mio incontro nell’85 con il Presidente francese Mitterand, fu la chiave di volta della normalizzazione dei rapporti tra la Polonia e i paesi occidentali.

D. Lei in quegl’anni turbolenti e difficili per la Polonia ha dovuto misurarsi e dialogare con i cardinali Wyszynski, Glemp e con Karol Wojtyla, tre grandi personalità della cattolica Polonia….

R. Il Primate Stèfan Wyszynski (1901 –1981) era un grande personaggio, storico direi, non a caso è considerato il Primate del millennio. Gli parlai una sola volta in circostanze drammatiche, la conversazione durò tre ore. Mi fece una grande impressione, era un autentico patriota, capiva le ragioni dello Stato; naturalmente era anticomunista ma era consapevole che bisognava agire con buon senso. Era contrario a ogni estremismo, difendeva con fermezza le ragioni della Chiesa e ne aveva subito le conseguenze al punto che negli anni ’50 era stato imprigionato. Serbo di lui un grande ricordo.

Con Jòzef Glemp ( 1929 –2013) mi sono incontrato decine di volte. Le nostre vicende personali sono curiose. Io con alle spalle una famiglia nobile, con i miei studi dai Padri Marinisti, con la mia appartenenza a un’organizzazione giovanile cattolica, sono diventato primo segretario del partito comunista polacco; il cardinale Glemp invece, figlio di operai educato in un Ginnasio socialista. Membro di un’organizzazione giovanile socialista è diventato Primate di Polonia. Vede questi sono i paradossi polacchi ma forse è stato un bene perché siamo riusciti a dialogare. Lui ha letto il Manifesto comunista e io conosco bene il catechismo…. Glemp si adoperò molto per raffreddare la temperatura sociale di quell’epoca. Poi, passo dopo passo siamo arrivati alla Tavola rotonda senza sbocchi traumatici.

Infine Giovanni Paolo II (1920 –2008), ex arcivescovo di Cracovia, senza dubbio un grande personaggio che ha saputo cogliere le opportunità maturate nel contesto politico internazionale di quegl’anni, si è mosso sempre con intelligenza. Durante uno dei nostri numerosi incontri mi disse: è stata la provvidenza a mandarci Gorbaciov. Usò proprio queste parole, ma al di là del ruolo della provvidenza lui attribuiva il giusto merito storico a Gorbaciov. Anche se sono ateo l’ho sempre apprezzato molto.

D. Lei, nella storia recente della Polonia, è considerato una sorta di enigma. Da un lato ha congelato con la forza le speranze dei polacchi ma poi ne ha comunque agevolato l’approdo alla democrazia…

 R. Nel mio libro sullo stato d’assedio sostengo che nessuno può essere giudice nella propria causa. In effetti se mi difendo si può pensare a un tentativo di nascondere i miei errori; se al contrario esagerassi nell’accusare me stesso ciò potrebbe apparire artificioso, falso. Pur con tutti i miei limiti e i miei difetti, mi sembra importante essere riuscito a dare un contributo al passaggio della Polonia da un sistema politico a un altro senza spargimento di sangue. E poi non si deve dimenticare che il nostro esempio fu uno stimolo per gli altri paesi dell’Est europeo.

Al termine di quella lunga conversazione – di cui qui sono riportati alcuni passaggi – mi tornò in mente una frase di Winston Churchill che avevo letto da qualche parte: “sono poche le virtù che i polacchi non posseggono, e sono pochi gli errori che hanno evitato”.

 

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