Una volta scoppiatala II guerra mondiale, i tedeschi chiesero agli italiani che cosa occorresse per venire fuori dalla cosiddetta non belligeranza, nella quale Mussolini si era pudicamente rifugiato, ma il Comando supremo, pur di continuare a defilarsi senza affrontare il nocciolo del problema, cioè l’esautorazione del duce, presentò ai tedeschi una richiesta di 17 milioni di tonnellate di materiali!
L’incredibile elencazione di materiali, tra i quali il molibdeno che non si sa bene a che cosa servisse, passerà, appunto, alla storia come la Lista del molibdeno. Oltre a non possedere il senso della misura, i nostri generali non possedevano neppure quello del ridicolo: per trasportare 17 milioni di tonnellate di materiali dalla Germania all’Italia, le ferrovie dei due Paesi avrebbero dovuto assicurare – ogni giorno e per un anno intero – un collegamento di quarantacinque convogli ferroviari, composti da cinquanta vagoni ognuno. Sempre che i cacciabombardieri inglesi se ne fossero rimasti a guardare.
Ma Mussolini voleva comunque la guerra, perciò a chi gli rappresentò la nostra deficitaria situazione militare, rispose che «La guerra sarà breve e io ho bisogno di un certo numero di morti per sedere al tavolo della pace (…). Se dovessi aspettare di avere l’esercito pronto dovrei entrare in guerra fra alcuni anni mentre devo entrare subito. Faremo quello che potremo». Il nostro perspicace condottiero prendeva l’iniziativa di una guerra di aggressione non per vincerla – come si propone chi aggredisce – ma per fare quello che si poteva, dimostrando di non credere nello slogan da lui stesso coniato: «Vinceremo!».
E che cosa avremmo potuto mai vincere a fianco di Hitler il quale, nel Mein Kampf, aveva già chiarito che «La stupenda forza creatrice è data solamente all’Ariano». Soldati, quindi, che non potevano assolutamente ritenersi d’incontaminata razza ariana perché al loro corredo cromosomico aveva contribuito, tra i tanti, anche un africano come Annibale, il 10 giugno del 1940 intrapresero la marcia che li avrebbe condotti contro la Francia, l’Inghilterra,la Grecia,la Russia e gli Stati Uniti d’America con un alleato che, sotto-sotto, li riteneva esseri inferiori.
In quel preciso momento storico la produzione industriale dell’Italia era il 2,7% di quella mondiale che, raffrontata al 32,2% degli USA, al 18,5% della Russia e al 9,2% dell’Inghilterra, rendeva patetiche le velleità del duce: uno gnomo industriale assaliva il 60% della produzione mondiale! Ma in quel momento sia Mussolini sia Hitler erano lontani dall’immaginare che – loro, i «superuomini» – sarebbero stati trascinati nella polvere da un handicappato rattrappito sulla sedia a rotelle, come Roosevelt, da un menomato a un braccio, come Stalin, e da un incontinente urinario, come Churchill.
Il 10 giugno del 1940, dunque, i carabinieri tornarono a indossare il grigioverde perché la Benemerita mobilitò trentasei battaglioni tradizionali, un battaglione paracadutisti di recente costituzione e uno squadrone a cavallo, una forza complessiva che consentirà ai carabinieri di compiere autonome azioni tattiche nel corso di molte battaglie di quella sciagurata guerra. Ancora una volta la riprova del loro eroismo è da ricercarsi nelle ricompense individuali concesse nei primi tre anni di guerra su tutti i fronti: tre croci di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia, diciassette medaglie d’oro al Valor Militare, 285 d’argento, 579 di bronzo e 1084 croci di guerra.
L’aggressione alla Grecia posta in atto da Mussolini per bilanciare l’occupazione tedesca della Romania, non si rivelò la passeggiata che egli immaginava. Infatti, la guerra con la quale, secondo lui, avrebbe dovuto spezzare le reni alla Grecia, cominciò per l’ennesima volta sulle montagne, dove il nostro esercito se la sarebbe vista brutta contro un avversario che si era assicurato il preventivo controllo delle vette. Ma anche in quel quadro la prospettiva tattica dei generali italiani rimase quella della contrapposizione frontale, dalla quale potevano uscire soltanto perdenti, stante la loro posizione e l’abilità che dimostreranno i nostri avversari nell’impiego delle artiglierie, in modo particolare dei mortai.
A fronteggiare i greci che ormai ci sospingevano verso l’interno dell’Albania fino al mare Adriatico, c’era anche il terzo battaglione dei carabinieri (nel quale militava anche il papà di chi scrive) che nella difesa di quota 665 nella zona del tristemente famoso ponte di Perati seppero tenere i greci a rispettosa distanza mentre il fronte ripiegava. A Klisura il terzo battaglione riuscì addirittura a sloggiare i coriacei greci da un caposaldo con bombe a mano e, infine, con un assalto alla baionetta che non sarà l’ultimo di quella guerra. I carabinieri, infatti, ancora una volta con la forza della disperazione e consapevole sacrificio della loro vita, difenderanno con la baionetta, bombe a mano, sassi, pugnali e bastoni l’ultimo lembo d’Italia in Africa Orientale.
Culqualber era un caposaldo situato su di un’altura a cinquanta chilometri da Gondar, in Etiopia, dove gli inglesi si scornarono contro un pugno di carabinieri del 1° gruppo che non ne volle sapere di arrendersi, tra il 18 maggio e il 23 novembre del 1941. Con poca acqua e pochissimo cibo (che andavano a “prelevare” nelle retrovie inglesi…) 210 carabinieri e 180 zaptiè a Culqualber tennero il loro settore per duecento giorni, contro un nemico numeroso e dotato di aerei, carri armati e armi pesanti. La battaglia poteva avere un diverso epilogo se soltanto l’Italia avesse potuto compiere aviosbarchi alle spalle degli inglesi… Ma la storia non si fa con i “se” e, pertanto, andiamo avanti.
Com’è sua antica tradizione sotto ogni regime, lo stato maggiore italiano, prima ordina il tuffo in piscina e, poi, si domanda se c’era l’acqua! Eravamo già in guerra da un mese, una guerra che imponeva – come abbiamo appena visto – aviosbarchi dal cielo, soprattutto per occupare tutte le isole dell’Egeo in mano agli inglesi a poche miglia dalle nostre coste, quando lo stato maggiore italiano sanzionò la nascita del I battaglione di carabinieri paracadutisti che, come tutti i paracadutisti italiani, sarà condannato a combattere da fantaccino puro in Libia.
Sbarcati a Tripoli mentre gli inglesi erano assediati a Tobruk, i carabinieri paracadutisti furono subito impiegati per contrastare i tentativi avversari di liberare Tobruk dall’assedio italo-tedesco.
Ciò che essi riusciranno a compiere durante l’offensiva inglese del dicembre1941 hadell’epico. Rimasti a sbarrare il passo di Eluet el Asel agli inglesi mentre le unità nazionali e tedesche ripiegavano, una volta assolto il loro compito, i carabinieri paracadutisti ricevettero – finalmente! – l’ordine di ripiegare anch’essi su Agedabia transitando lungo la via Balbia che gli inglesi, però, avevano già sbarrato in più punti. Al bivio di Lamluda il 1° battaglione carabinieri distrusse uno sbarramento inglese e, pochi chilometri dopo, distrusse anche il secondo e, ancora più avanti, il terzo: se non fosse eroicamente drammatica, la scena dei carabinieri che, sulla Balbia, ogni tanto e con estrema calma, fanno sosta per liberare la strada a colpi di bombe e di mitragliatrice per poi risalire sui mezzi e ripartire, sarebbe alquanto comica.
Gli inglesi furono costretti ad ammettere da “Radio Londra” che i paracadutisti italiani (quindi anche i carabinieri) « …si erano battuti come leoni e che fino ad allora, in Africa, i reparti inglesi non avevano mai incontrato così accanita resistenza». Anzi, a dire di chi c’era, in Africa i fantaccini inglesi avevano una fottutissima paura quando sapevano che dall’altra parte c’erano bersaglieri o carabinieri.
Le stesse scene di eroismo della Benemerita si ripeteranno nei Balcani, in Egeo e perfino nelle steppe di Russia, fino ad arrivare al 25 luglio del 1943 quando il Gran consiglio del fascismo deporrà Mussolini che sarà arrestato proprio dai carabinieri. Pur senza cadere nella tentazione di un improponibile revisionismo, a sessantanove anni dalla fine della II guerra mondiale bisognerebbe avere il coraggio di ammettere che la frettolosa condanna dei giovani che militarono nella Repubblica sociale non sempre fu giusta, perché essa prescindeva dalla travagliata contingenza storica e dalla percezione che essi ne ebbero.
Spiega bene quello che, tra il 1943 e il 1945, dovette essere il loro stato d’animo la lettera che il maresciallo della X Mas, Giulio Sebastianelli, catturato dopo un tentato sabotaggio dietro le linee alleate, scrisse alla famiglia prima di essere fucilato dagli americani a Santa Maria Capua Vetere, nel Casertano: «Ho fatto quello che ogni italiano aveva il dovere di fare; cioè togliere, a costo della vita, l’Italia dall’onta e dal disonore in cui due perversi uomini l’avevano gettata». I due perversi uomini erano Badoglio e Vittorio Emanuele III, ovviamente.
Nel frattempo, Mussolini dopo essere stato sballottato tra Roma, Ponza e l’isola diLa Maddalena, era stato infine internato sul Gran Sasso a Campo Imperatore. Vi rimarrà fino al 12 settembre del 1943, giorno in cui i tedeschi lo libereranno e inizieràla Repubblicadi Salò.
Nel 1945, il capo di stato maggiore di quel che rimaneva dell’esercito italiano, il generale Messe, così scriveva all’allora Ministro degli affari esteri: «Una volta ritrovata fiducia nelle loro forze e ordine interno, gli italiani contribuiranno a forgiare nella vittoria comune quell’edificio di libertà e di democrazia che costituì l’obiettivo fondamentale delle Nazioni Unite». Il fatto che, fino a qualche anno prima, quegli stessi obiettivi erano stati da noi avversati con le armi avrebbero dovuto consigliare più prudenza e un minimo di pudore a Messe ma certi italiani sono fatti così: pur di salire sul carro del vincitore rinnegherebbero anche la madre!
Abbiamo abbinato questi due episodi perché essi costituiscono l’inizio e la fine del biennio più tremendo, della nostra storia, allora che lo stato, il governo, le forze armate e lo stesso sentimento nazionale si liquefecero in poche ore. Tutto crollò, eccetto l’indissolubile fedeltà dei carabinieri che – anche se la storia ufficiale non ne ha mai parlato – nella notte del 27 gennaio 1944 fecero di Campione d’Italia la prima zona del Nord del Paese a essere ufficialmente liberata dai nazifascisti.
A parlare delle gesta dei carabinieri durante e dopo l’8 settembre 1943 si corre il rischio di ritornare una volta di troppo sulla figura del vicebrigadiere Salvo d’Acquisto e dei carabinieri Marandola, Sbarretti e La Rocca ma la Benemerita fu anche il brigadiere Angelo Joppi che si fece massacrare dagli aguzzini tedeschi per novanta giorni pur di non tradire i propri compagni alla macchia. La Benemerita fu anche il carabiniere Andrea Marchini, il tenente Federico Silvestri e il tenente colonnello Edoardo Alessi, caduti anch’essi eroicamente durante la Resistenza. Tanto per citarne alcuni.
Per parlare dei caduti dell’Arma dei carabinieri basta andare a rovistare negli archivi del comando generale mentre a noi, in realtà, interessa porre in evidenza la loro insostituibile opera svolta al servizio della legge quando la legge latitava.
Subito dopo la guerra, il nostro Paese versava in condizioni disastrose anche dal punto di vista dell’ordine pubblico un po’ per ragioni politiche, un po’ perché circolavano ancora molte delle armi lasciate in giro dagli otto eserciti che si erano affrontati sul suolo italiano, un po’ perché vi era tanta fame in giro. Basti pensare che soltanto nel 1946 gli omicidi furono 2.160 (molti per motivi politici), le rapine 10.708, i sequestri di persone 330, le estorsioni 1.162 e circa 300mola furono i furti.
Per quanto in guerra il carabiniere si sia sempre rivelato un eccellente combattente, è nel controllo del territorio che riesce a dare il meglio di sé, specialmente in una situazione di grande emergenza come fu quella dei primi anni del dopoguerra. Tra le rivolte carcerarie di Bologna, Alessandria, Forlì, Pavia, Genova e Milano, e i sommovimenti seguiti all’attentato a Palmiro Togliatti il 14 luglio del 1948, i carabinieri non ebbero vita facile, anche perché il loro numero all’epoca non superava le 70mila unità e le altre forze di polizia erano ancora di meno e non meglio armate di loro. Nello stesso periodo divenne più cruenta la lotta tra i carabinieri e il banditismo siciliano capeggiato da Salvatore Giuliano, un fuorilegge feroce e mano armata – oltre che burattino – della mafia e del movimento separatista siciliano.
Giuliano, di là delle pose politiche, era un bandito rozzo e ignorante la cui ferocia fu ammantata di alcune venature romantiche grazie a giornalisti stranieri, come la svedese Maria Cyliakus che pare ebbe con lui una breve relazione sentimentale. Per farsi un’idea del tipo di bandito che era il cosiddetto re di Montelepre, perciò, non bisogna andare a rileggere gli articoli della Cyliakus ma la frase che egli aveva scritto sul calcio di legno del suo mitragliatore Thompson: «Carabinieri! Per voi vedo malo e oscuro cammino».
L’autore di queste note ha avuto l’onore di conoscere la figlia del carabiniere Antonio Mancino, la prima vittima dal “romantico” Giuliano il 2 settembre del 1943: la dolce signora Mancino non conobbe mai il padre perché questi fu ucciso da Giuliano per due sacchi di farina destinati al mercato nero dalla mafia.
Sebbene operasse su scala minore e non avesse nessuna coloritura politica, il banditismo sardo di quegli anni non fu meno feroce della mafia ma anche in quel caso i carabinieri la ebbero vinta. Cercare di sintetizzare qui la storia dell’Arma dei carabinieri è facile ma, paradossalmente, anche difficile perché i carabinieri non sono delle semplici forze di polizia ma l’anima bonaria eppure inflessibile di un popolo che è migliore della sua classe dirigente: come si fa a parlare dell’anima di un popolo senza soffermarsi a elencarne storia, avvenimenti, tragedie o anche semplici vicissitudini?
Purtroppo, non abbiamo lo spazio occorrente per farlo e, come il solito, ricorreremo alla sintesi più brutale, almeno, dove sarà possibile. Debellato il banditismo in Sicilia e in Sardegna, venne l’amministrazione fiduciaria per conto dell’Onu della Somalia, dove i carabinieri oltre ad assicurare l’ordine pubblico per dieci anni, costruirono l’embrione delle forze di polizia di quel Paese. Vi fu, poi, l’alluvione nel Polesine dove la bandiera della Benemerita ottenne, la medaglia d’oro al Valor civile. Purtroppo, in quegli anni si sviluppò anche la cattiva pianta del terrorismo in Alto Adige che costò la vita a molti carabinieri.
Debellati, o almeno circoscritti, i fenomeni delinquenziali, battuto il terrorismo altoatesino e pacificatala Nazione, i carabinieri si sarebbero trovati, loro malgrado, a essere vittima dei giochi di potere tra Roma e Washington per mettere fuori gioco il Partito comunista italiano, progetto che fu attribuito al generale Giovanni De Lorenzo. Ironia della sorte, De Lorenzo era stato nominato sia capo del Sifar, i servizi segreti dell’epoca, e poi comandante generale dell’Arma con il parere favorevole dei comunisti italiani.
A nostro parere De Lorenzo ebbe l’unica colpa di aver fatto bene il proprio lavoro che fu quello di trasformare la struttura del vecchio, inefficiente Sim in un servizio d’intelligence efficace e, in seguito, modernizzare l’Arma dei carabinieri che dopo la guerra possedeva soltanto cinque mezzi corazzati, 466 auto, e 929 motociclette. Peraltro, senza le innovazioni introdotte da De Lorenzo,la Benemerita probabilmente non avrebbe sconfitto il terrorismo brigatista che era già alle viste in quegli anni. Se a questo aggiungiamo che Giovanni De Lorenzo era uno di quegli ufficiali di vecchio stampo che portavano ancora il monocolo, allora si capisce che egli era un predestinato a diventare la vittima sacrificale di una più che mediocre classe politica che poteva/può giustificare (e consolidare) la propria esistenza soltanto facendo vivere il Paese in un clima di emergenza permanente dando ora per scontati, ora per sventati, ma mai dimostrati, dei tentativi di colpi di Stato.
Da parte dei Carabinieri poi! Come dire da parte dei più fedeli servitori della legalità che lo Stato italiano abbia mai avuto. La verità è un’altra: gli squinternati protagonisti di una situazione politica dove il trasformismo, l’interesse privato, il tradimento e il familismo amorale sono la norma, hanno il terrore di chi – senza guardare in faccia a nessuno – è «aduso ubbidire tacendo e tacendo morir» soltanto alla Legge e per la Legge. Da due secoli.
( 3 – fine)
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