Malnate ha assegnato il Ponte d’oro a due “malnatesi”: l’architetto e poeta dottor Enrico Berté, ex internato militare italiano nei lager nazisti, che instancabile alimenta la memoria dell’Olocausto tra i giovani nelle scuole della Lombardia; e padre Franco Nascimbene, il missionario comboniano che in Italia e in Sud America ha assistito, assiste e conforta gli ultimi, portando loro la parola di Cristo. I due premiati, apparentemente distinti nei compiti e negli abiti, sono in realtà accomunati da un’unica nobile funzione: essere cioè due testimoni del nostro tempo che con il loro esempio hanno difeso e difendono la dignità e la libertà della persona umana. L’uno, Berté, testimoniando contro l’orrore della barbarie nazista, che ha ridotto l’uomo ad oggetto, a cosa; l’altro, padre Nascimbene, portando il conforto e la solidarietà umana in tante parti povere e deprivate del sud america, in particolare a Guayaquil, grande città sul Pacifico, vivendo nelle palafitte in un quartiere emarginato, dove la dignità dell’uomo viene continuamente abbrutita e umiliata.
Le nobili figure dei premiati, con la loro instancabile presenza e con il loro generoso altruismo, riscattano la dignità e la libertà della persona umana, dando senso all’uomo e alla sua esistenza, in un’epoca dominata dall’indifferenza, dagli egoismi e dall’intolleranza.
Sono stato invitato a Malnate in occasione del conferimento del Ponte d’oro a Enrico Berté, compagno di tanti incontri con le scolaresche della provincia di Varese, durante la Giornata della memoria. Dopo la cerimonia, il nostro caro amico Enrico, ha voluto invitare mia moglie e me a festeggiare assieme alla sua compagna Valerie, il premio, in un ristorante tipico di Malnate. E lì, in un’atmosfera serena e conviviale, abbiamo parlato dei nostri prossimi incontri con gli studenti, ma anche della sua produzione poetica recente, nonché dei suoi numerosi premi vinti ed in particolare dell’ambito Ponte d’oro. Ne ho approfittato, anche per fargli ripercorrere, per i lettori di RMFonline, alcuni dei suoi momenti più significativi, almeno quelli più salienti del suo internamento nel lager di Shandelah, in Germania.
La storia di Enrico Berté non è dissimile da quella degli oltre seicentomila militari italiani catturati nel 1943, all’indomani dell’8 settembre, dai tedeschi ed internati nei lager .
A Enrico Berté venne chiesto, così come agli altri soldati italiani abbandonati a loro destino dal Re e da Badoglio, fuggiti lasciando l’esercito allo sbando, se aderire alla neonata e fascista Repubblica Sociale di Salò “per salvare – come si diceva facendo ricorso ad una consunta demagogia – l’onore della Patria” che però era stata già consegnata dagli stessi fascisti al padrone tedesco. Si trattava di scegliere se tornare a combattere a fianco dei tedeschi, o essere considerati dei traditori e trattati di conseguenza. Era un grande dilemma, ma dei tanti militari interpellati, solo un’esigua minoranza aderì. La stragrande maggioranza rispose, dicendo il suo “Nein” chiaro e forte e tra questi Enrico Berté, affrontando volontariamente con dignità la prigionia, e l’internamento piuttosto che combattere nuovamente al fianco dei nazisti e dei fascisti.
- Enrico, tu hai partecipato alla seconda Guerra Mondiale?
“Sì, ho partecipato alla seconda Guerra Mondiale, da soldato semplice. Ho fatto tre domande per andare volontario in zone di operazioni belliche, allora credevo nel Duce. Domande che non sono state accettate. Ho fatto quattro mesi di vita militare a Bressanone, dal maggio fino all’otto settembre1943. Sono stato fatto prigioniero dalle truppe tedesche alle ore 4 del mattino del nove settembre 1943. Sono stato in seguito caricato in un carro bestiame insieme ad altri militari; eravamo così in tanti e così ammassati, che se sollevavi un piede per cambiare l’appoggio a lungo, difficilmente ritrovavi lo spazio per rimetterlo sul pavimento. Senza acqua e senza cibo tra difficoltà indicibili dopo un lento viaggio, costellato di soste estenuanti siamo arrivati a destinazione”.
- Che ricordi hai della tua prigionia nel campo di lavoro forzato di Schandelah? Come venivi trattato? Primo Levi racconta che molti si salvarono nei lager, grazie alla fede, è stato anche per te così?
“Molti dei miei compagni non sono tornati, stremati dalla fame, dal freddo e dalle malattie. Il mio amico più caro Giorgio Moroni, operaio di Milano, è morto tra mille sofferenze di leucemia pochi anni dopo il ritorno. Alfredo Ragazzi di Como è pure deceduto a distanza di qualche anno, per i postumi della prigionia. Di tanti altri non so più nulla. Io mi sono salvato forse per due fattori. Primo perché ero di costituzione fisica ridotta rispetto ad altri con corporature più robuste e che quindi avevano bisogno di maggiori calorie per sopravvivere. Secondo, perché provengo da una famiglia di credenti e la fede mi è stata di conforto e mi ha sorretto nei giorni più difficili, dandomi la forza per lottare e sopravvivere. Anche a Schandelah, dove ho visto morire deportati di varie nazionalità, stroncati dal trattamento brutale, dai patimenti, mi bastava fare il segno della croce, di nascosto dalle SS, per ritrovare la speranza. La fede è stata per me importante, mi ha dato l’opportunità di aiutare anche qualcun altro. Spesso quelli non credenti, ma con una fede laica, vedendoci fare il segno della croce ci prendevano in giro, ma poi ci rispettavano e ci capivano, come del resto noi capivamo loro e li rispettavamo. Anche se non credevano, la loro razionalità illuministica aiutava anche loro a sopravvivere. Ma un giorno tutti noi, credenti e non credenti, fummo colpiti da un avvenimento, che ricordo ancora nitidamente nonostante i miei ottantasette anni e a distanza di sessantasei anni. Un prelato cecoslovacco o polacco non l’ho mai saputo, mentre veniva portato nel luogo dell’esecuzione per essere fucilato si fermò rivolgendo a tutti noi, lui che andava morire, parole di speranza e di conforto. Non potrò mai dimenticare la luce e la serenità che emanavano da quel suo viso, mentre pregando si dirigeva verso il patibolo. La fede e la speranza di rivedere la mia famiglia sana e salva erano il mio più grande conforto e il mio pensiero costanti. Avevo un’acuta nostalgia di tutti i miei cari e mi confortava sapere ch’ero l’unico dei familiari ad essere prigioniero. Infatti per fortuna mio padre e mio fratello erano a casa al sicuro”.
- Un posto importante riveste oggi la tua vasta e variegata e pluri – premiata attività di poeta: sono molte le poesie che richiamano, accanto a momenti sereni e felici, la tua dolorosa esperienza di ex-internato. Scrivi – come ricordi – perché sei “stato risparmiato per parlarne”? Perché senti il bisogno di tramandare la memoria? Si avvicinano le festività natalizie, Enrico, vorrei concludere questa nostra breve chiacchierata con una tua poesia, ne hai scritte tante, ne hai per caso una che parla del Natale?
“Ho pubblicato sette libri di poesie e ne ho in stampa un ottavo, e ho ricevuto, come sai, molti premi per la mia produzione letteraria e il mio impegno per la memoria. Noi sopravvissuti dai lager abbiamo il dovere di scrivere e parlare affinché non si dimentichi ciò che è stato e perché dopo Auschwitz, come dice Adorno, dobbiamo assumere “un nuovo imperativo categorico: pensare e agire in modo che Auschwitz non si ripeta, che non accada più nulla di simile”.
Dobbiamo adoperarci tutti affinché i giovani possano cogliere quel messaggio di pace tra i popoli che in prossimità del Natale si alza da più parti e lottare contro ogni forma di razzismo e di intolleranza. Dobbiamo mettere i giovani al riparo e in guardia dal ripetersi di analoghe tragedie e scellerataggini. Ho scelto per i lettori di Radio Missioni Francescane questa poesia sul Natale dedicata a tutti gli uomini di pace e a quegli uomini di Schandelah di nazionalità diverse, senza nomi con un triangolino colorato sulle casacche a righe verticali con una lettera a significarne il paese d’origine.
Giorno di Natale Rapido passa dissimile giorno di Natale da quello dal fato costruito a Schandelah. A luce intermittente stelle d’argento sfere luccicanti e sentimenti morbide fanno le pietre della casa e io mi dico “Già son tornati a prendermi a riportarmi via e mi ritrovo numero 6-6-6-5-5 col mento sull’asta del badile all’ora dell’appello tra gl’incomprensibile latrati e il muto morire sotto la neve” 25.12.1992
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