È possibile che le imminenti europee siano destinate a risolversi in un immane “sciopero elettorale”.
Intendiamoci. Un massiccio astensionismo non è sempre un male: Paesi di antica tradizione democratica – valga per tutti l’esempio degli Stati Uniti – sovente fanno registrare tassi di partecipazione al voto attorno al 50%. Però casi del genere – insegnano molti politologi – significano soltanto che larga parte degli elettori “vive del suo”, e quindi non fa dipendere il proprio personale destino dalle alterne vicende della politica.
Ma non sarebbe certo questo il caso nostro. Da noi l’astensionismo sarebbe il segnale d’una generale protesta da parte dei cittadini comuni nei confronti della classe politica. Protesta a cui verrebbe ad aggiungersi, il 25 maggio prossimo, un’ancor più grande disaffezione nei confronti dell’Europa.
Vale perciò la pena di meditare su almeno alcuni fra i più frequenti asserti “antieuropei”.
Il Parlamento europeo non serve a nulla.
Questo argomento è tra i più radicati anche presso commentatori politici assai avveduti: ad esempio, il pur valentissimo giornalista – vignettista Vincino, il quale a 24 Mattina non perde occasione di presentare l’Europarlamento come una congrega di nullafacenti, divisi fra Strasburgo e Bruxelles, forniti solo del potere di enunciare retorici “indirizzi”.
Ebbene, ciò non corrisponde affatto alla realtà. Nel corso degli anni, il Parlamento Europeo è venuto assumendo gli stessi poteri che hanno i Parlamenti nazionali. In particolare, partecipa attivamente sia all’approvazione delle “leggi” sia alla legittimazione (e, se del caso, delegittimazione) dell’“esecutivo”. A tal proposito, mi permetto di rinviare al mio “Veri e falsi parlamenti” (in www.dissensiediscordanze.it dell’aprile scorso) e ai due interessanti contributi di Chiara Bussi e di Beda Romano sul Sole 24 Ore del 28 aprile scorso.
Quanto alla “doppia sede”, questo dipende dalla volontà non degli eurodeputati, ma degli Stati.
Tali considerazioni consiglierebbero di andare a votare, e non di astenersi.
L’euro ha rovinato l’economia italiana.
In questo caso, è bene distinguere.
Prima di tutto, l’appartenenza all’UE e l’appartenenza all’euro non sono la stessa cosa. Già adesso alcuni Paesi (come l’Inghilterra ela Danimarca) sono membri dell’UE pur avendo conservato le loro monete nazionali. Non solo, ma i Trattati consentono a uno Stato di “secedere” dall’UE. Sicché (poiché “nel più ci sta il meno”) un singolo Stato potrebbe anche (come ventilato da alcuni) uscire dall’euro senza per questo uscire dall’UE.
Ma, in secondo luogo, la questione, allo stato, non è se uscire dall’area euro o continuare a farne parte. La questione è come continuare a farne parte; e, correlativamente e solo eventualmente (una volta fosse stata accertata l’impossibilità di continuare a tenerselo così com’è adesso), come uscirne.
L’attuale problema della moneta unica è che essa (al pari di tutte le monete che si rispettano) dovrebbe avere un unico debito pubblico (i famosi eurobond, garantiti dall’intera Unione), una fiscalità uniforme e un unico ordinamento del lavoro.
Tutto ciò presuppone un controllo politico della moneta, e quindi la massima possibile partecipazione dei cittadini alle elezioni.
L’Unione europea è affetta da deficit democratico.
In sintesi, si sostiene che, dove sono democratiche (come nel caso dell’Europarlamento), le decisioni UE sarebbero ininfluenti. Dove sono incisive, non sarebbero invece democratiche.
Questa considerazione sembra dimostrare, peraltro, che l’UE “funziona”. Magari in modo distorto, magari in modo contrario al sentire e al volere dei cittadini, ma comunque “funziona”. E di ciò è prova … proprio l’antieuropeismo! Ed è meno strano di quanto sembri: è facile dirsi favorevoli agli “Stati Uniti d’Europa” quando questo non costa nulla; un po’ meno lo è quando l’Europa impone sacrifici. Perché gli antieuropeisti hanno le loro ragioni quando evidenziano alcuni macroscopici difetti delle politiche UE. Che negli ultimi anni sono stati (almeno) due.
Il primo è l’avere acriticamente abbracciato il “dogma” liberistico e monetaristico, massimizzando le “quattro libertà” di circolazione (dei beni, dei servizi, dei capitali e delle persone) come se fossero identiche e credendo che il contenimento dell’inflazione ad ogni costo fosse l’unica ricetta possibile per la ripresa dell’economia.
Il secondo difetto è stato che l’UE si è prestata ad addossare su di sé le responsabilità di politiche di aumento delle tasse e di restrizione della spesa pubblica che invece vanno prioritariamente addossate alle classi politiche nazionali.
Ma, se vogliono contribuire ad eliminare questi difetti, i cittadini dovrebbero votare, e non, astenendosi, lasciare una sorta di “cambiale in bianco” nelle mani dei politici!
Ma allora perché questi convincimenti antieuropei sono così radicati?
La responsabilità, almeno per quanto riguarda l’Italia, va equamente divisa fra le forze politiche ed i media.
I maggiori partiti italiani non hanno mai dato grande rilievo alle questioni comunitarie. Tutt’al più, hanno considerato le “europee” o come una sorta di “maxisondaggio” al lume del quale rivalutare gli equilibri politici interni, oppure come un modo per “allocare” politici decotti o in attesa di riposizionamento nazionale. Paradossalmente, anche in questo caso gli unici partiti che fondano le loro campagne elettorali sulle questioni comunitarie (e ciò va detto a loro merito) … sono quelli antieuropeisti!
Dal canto loro troppi media italiani, nel quinquennio in cui operano Parlamento e Commissione UE, se ne occupano poco (spesso considerandoli oggetti di “politica estera”). Del pari, oggi evidenziano poco che, a queste europee, si voterà non solo per i parlamentari, ma anche per i candidati alla Presidenza della Commissione. E non sottolineano abbastanza che un Presidente legittimato da un forte voto popolare potrebbe rappresentare un forte cambiamento in senso veramente democratico.
Per tutto questo, a votare io ci andrò!
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