I ventisette milioni di disoccupati in Europa sono la cifra più alta degli ultimi decenni. Il peso europeo in politica estera è bassissimo (Libia, Siria, Nigeria). Il dramma dei migranti è lasciato alle nazioni mediterranee. Gli interessi nazionali hanno avuto la prevalenza su quelli comunitari e la Germaniaappare come la dominatrice della scena.
Le doglianze sono tante e oggi, nell’immaginario collettivo, sono prevalenti sui vantaggi che l’Italia ha tratto dalla sua appartenenza all’eurozona. Come dice sempre Romano Prodi i vincoli europei sono risultati utilissimi per un lungo periodo. Senza di essi sarebbe enormemente aumentato il nostro debito pubblico.
La situazione è però drasticamente cambiata dopo la grande crisi degli ultimi anni che ha diffuso uno scetticismo profondo. Grillo e la Lega non hanno nessuna ricetta valida e in Europa il loro ruolo sarà pressoché nullo ma in Italia catalizzeranno un consenso fondato sulla rabbia e sulla paura. Le ragioni di questo cambio di umore sono chiare.
Si possono riassumere così. La risposta della crescente austerità si è rivelata sbagliata. Le economie nazionali meno forti ne hanno sofferto moltissimo. Se non si tratta di revisionare alla radice i parametri di Maastricht certamente bisogna interpretarli in modo diverso. Il rapporto deficit-Pil del 3% dovrà essere calcolato escludendo le spese per le calamità naturali e per le emergenze e lasciando fuori molti investimenti strutturali (la scuola ad esempio).
Il pareggio del bilancio va perseguito dai singoli Stati mediante modalità compatibili con i loro doveri sociali e di solidarietà. Averlo inserito nella nostra Costituzione è stato un grosso errore. Un “patto del progresso sociale” va affiancato al “patto fiscale”. Il lavoro deve balzare al primo post in tutte le agende di governo.
L’azione della BCE di Draghi è stata più efficace nell’affrontare l’emergenza finanziaria che non l’azione della Commissione. Ma alla BCE bisogna dare più mezzi e poteri per realizzare politiche monetarie espansive e di crescita.
Il problema più grande riguarda l’assetto politico-istituzionale. Parlare di Europa federale appare a molti cittadini quasi una provocazione. Eppure dal guado si esce rafforzando l’unità politica non arretrando sulla vecchia sponda degli Stati sovrani. Sovrani del poco o niente se fra venti anni nemmeno la Germania potrebbe fare più parte del G7.
Per la prima volta dopo le elezioni il nuovo presidente della Commissione (capo del governo) sarà scelto, sì, dai ventotto Stati nazionali ma sulla base dei risultati elettorali e comunque attraverso l’intesa con il Parlamento europeo.
Gli antagonisti principali sono due: Jean Claude Junker se vincerà il PPE; Martin Schulz se vinceranno i socialisti e democratici. Con il primo si privilegia la continuità. Con il secondo dovrebbe esserci una maggiore spinta verso il cambiamento. Ma i governi nazionali peseranno ancora moltissimo. Incombe una domanda importante: la grande coalizione al governo da qualche mese in Germania (Merkel – socialdemocratici) sarà un freno o un vantaggio per le riforme necessarie in Europa?
Schulz ha dichiarato a ripetizione che la maggioranza dei tedeschi vuole “una Germania europea, non una Europa germanizzata”. L’augurio è che sia effettivamente così. Tuttavia l’Italia, la Francia e la Spagna, con tanti problemi comuni, hanno il compito inderogabile di trovare un accordo di lunga prospettiva sul terreno economico e sociale.
Quale sarà il peso dell’Italia nell’Ue? Se avrà fatto le riforme strutturali promesse sarà buono e alto altrimenti continuerà ad essere molto modesto come lo è stato negli ultimi anni.
You must be logged in to post a comment Login