Una festa con loro, uomini e donne invisibili per chi non li vuol vedere. Homeless, clochard, in Italia barboni, vagabondi, più elegantemente “senza tetto”. Gente che l’integrazione la può insegnare perché l’ha conosciuta e la sta vivendo in modo naturale e spontaneo ogni volta in cui si sente accolta. Come Peppino, nato e cresciuto a Varese. Lo si riconosce facilmente. Grande e grosso, pendolare tra una stazione e l’altra sempre con più di un sacchetto per ogni mano: “Nei sacchetti ho tutte le mie cose. Sono i miei armadi. Sono il barbone più vecchio di Varese. Ce ne sono anche di più anziani ma sono arrivati dopo di me. La mia stagione preferita è l’estate. No, non per il clima ma perché fanno la “sacca” (sagra) del pescatore. La gente che ci ha la pancia piena avanza le alborelle e io mangio pesce due volte al giorno! La gente è strana. La gente non la capisco da una vita, ma ormai è sempre più difficile capirci anche tra noi barboni. A me fanno tenerezza i “negher”. Mi dicono che non vanno chiamati così perché altrimenti si offendono. Sarà. Sta di fatto che io con loro divido il cibo e i vestiti mentre quelli che li chiamano “di colore” o “extracomunitari” se possono li evitano e se li avvicinano è per farli lavorare come schiavi”.
Si ritrovano in questi giorni anche a fare festa: a Varese un ultimo dell’anno anche per loro, a Giubiano. Un appuntamento da tre anni ormai e il racconto delle loro storie sembra scaldarsi, come le mani meno intirizzite e i volti meno tirati dal gelo. “È qualche anno che veniamo qui a passare l’ultimo. Siamo tutti insieme, ma molti di noi il brindisi di fine anno lo fanno un paio d’ore prima per non sentire quello degli “altri”. Quelli che sono nelle loro case con le loro famiglie”.
All’improvviso si alza una protesta: “Ma cosa vuole che sappiano di noi quelli che vestono giacca e cravatta tra una casa accogliente e un ufficio riscaldati d’inverno e rinfrescati d’estate?”. Chi parla è Platone, laureato in filosofia, barbone per scelta. Nel poco tempo trascorso chiacchierando con lui, il tema della sua condizione non è nemmeno sfiorato. Platone ha scritto libri. È filosofo nell’aspetto, nella mente, ha una lunga barba bianca e parole che vanno dal piatto di gnocchi fino al cielo, traslando in un linguaggio metaforico e magniloquente perle di saggezza, senso delle cose, domande sull’esistenza che contrastano con l’aria affaticata dei suoi occhi, la pelle ruvida delle sue mani, i solchi del suo volto. Parla e sorride a se stesso rivolgendosi a noi “schiavi dei tempi, degli orari, dei programmi di vita”.
Lo guarda intensamente Francesca. Mentre lo sente declamare piange. Dentro quelle lacrime racconti senza trama, di liti con un convivente occasionale, di bollette non pagate e di vicende legate alla quotidianità che contrastano apparentemente con l’astratto volo di Platone. Piange Francesca e chissà se i suoi pensieri e quelli del filosofo da qualche parte si incontrano. Volti che hanno anche un nome quando ti siedi accanto a loro e condividi una cena. Barboni o gente abbandonata a se stessa, che allungano la fila di gente che si forma ogni sera davanti al cancello delle Suore della Riparazione di Varese, in Via Bernardino Luini. Uomini e donne che sanno di alcol nelle sera più fredde, che indossano un giaccone dismesso da chi era stanco di vederlo appeso nell’armadio “a fare niente”.
Si chiamano Pietro, Francesca, Alì, Enzo, “Platone”, Peppino, Caterina. Hanno la loro storia, i loro giorni da contare e raccontare, i loro sogni.
Peppino, in un angolo, occupa sempre lo stesso posto, isolato. All’invito di avvicinarsi per stare in compagnia con gli altri ecco la sua risposta: “No perchè spuzzi me na cavra e dopu i alter me fann?”.
Peppino mangia trangugiando più che può e accetta due, tre, quattro vaschette di scorta per i giorni a venire. Con la bicicletta e i piedi gonfi che nemmeno scarpe di parecchi numeri in più riescono ormai a contenere, prende il treno ogni giorno e poi si ferma a scaldarsi nella sala d’aspetto di qualche stazione, fin che non si accorgono della sua presenza e lo cacciano. Caterina raccoglie i capelli ormai quasi bianchi nel variopinto e fiorito foulard di lana: una femminilità aggraziata che i tratti del volto e i modi garbati fanno affiorare anche dagli stenti di essere qui, ormai avanti negli anni, a cercare un lavoro per aiutare il resto della famiglia distante e rimasto là, in un paese povero, più povero di lei, nella sconfinata terra dell’Est.
Viene spontaneo pensare al Comune di Varese, ai Comuni della provincia di Varese, alle Parrocchie, alla Caritas. Cosa si fa o cosa si potrebbe fare per questa gente. Pensieri che svaniscono quando la mano di Francesca mi si aggrappa al braccio: “Ha trovato un po’ di tempo per ascoltare noi disgraziati – mi dice guardandomi negli occhi -, adesso non rovini tutto andando ad ascoltare quelle che voi chiamate “istituzioni”. Le risposte gliele dico già io. Le so a memoria. La mettono sempre sulla mancanza di soldi. E chi glieli chiede? A noi bastano gli avanzi degli altri e una carezza”. Caterina è ancora lì. Sorride e annuisce con la testa. È silenziosa Caterina. Anche lei ha un cognome. Anche lei ha una famiglia. Mentre per le vie della città la festa si colora di suoni e grida festose, lei chiude gli occhi e forse sente, lei sola, una lunga nenia. Il suo canto di Natale, quello che spera un giorno di tornare a cantare attorno a una semplice tavola, col marito e i suoi figli. Alì, magrebino, ha vent’anni. “Io sono nato il 31 dicembre. Due anni fa a Giubiano i ragazzi dell’oratorio e i volontari mi hanno fatto la festa di compleanno. Non me l’aspettavo o meglio, non sapevo cosa fosse. È stata la prima festa di compleanno della mia vita”.
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