La notte di San Silvestro del 1895 una bella luna africana illuminava la valle di Makallè, in Etiopia, mentre un gruppo di iene, avanzando sottovento, tentava di avvicinarsi ad alcuni somari che sonnecchiavano in piedi. All’improvviso il silenzio fu squarciato dal canto di un coro, proveniente dalla sommità dell’amba Endà Jesus e che intonava Funiculì Funiculà: i somari si scossero dal torpore e scapparono via ragliando mentre le iene, dopo qualche attimo d’incertezza, fecero marcia indietro e si allontanarono tra le euforbie.
Ma che ci facevano in quel posto gli italiani e, come il solito, i carabinieri? Per capire come fu che 19 ufficiali, 170 soldati e 1081 ascari e tutti i carabinieri della stazione di Makallè si ritrovassero assediati da 30mila abissini ci vorrebbe troppo tempo, perciò anche stavolta ricorreremo alla sintesi. La compagnia di navigazione Rubattino (quella che fornì i piroscafi a Garibaldi per sbarcare in Sicilia nel 1860) aveva acquistato da due sultani locali la base di Assab, sul Mar Rosso per seimila talleri e che, in seguito, aveva ceduto al governo italiano che, per prima cosa, v’insediò una stazione di carabinieri dopo di che, iniziò a espandersi verso l’interno.
Incoraggiata in ciò dall’Inghilterra che sperava così di dirottare verso di noi una parte dei mahdisti che assediavano il generale Gordon a Kartum, nel 1884 il governo italiano decise l’occupazione militare anche di Massaua il che ci mise in contrasto con i dirimpettai abissini. Essi, infatti, non presero bene l’insediamento degli italiani a Massaua e un loro fitaurari, ras Alula, attaccò prima a Saati e poi a Dogali dove, il 26 gennaio del 1887, sterminò un intero battaglione italiano. Poi venne il trattato di Uccialli che riconosceva all’Italia la conquista della colonia eritrea e il protettorato sull’Abissinia, o almeno così pensavano i nostri governanti che non si erano preoccupati di far tradurre il trattato.
Esploso l’equivoco del “protettorato”, nel 1895 gli abissini ripresero la guerra contro gli italiani che sconfissero ripetute volte all’Amba Alagi, a Makallè da dove siamo partiti e, infine ad Adua dove caddero settemila italiani tra i quali molti appartenenti alla Benemerita.
Il problema è che parlare di eroismo riferito ai carabinieri, spesso è riduttivo perché molte delle loro gesta non sono facilmente collocabili nel Pantheon dell’eroismo perché vanno oltre. Una di quelle gesta fu la difesa della stazione di Adigrat dove, dal 1° marzo al 15 maggio del 1896, undici carabinieri resistettero all’assedio di migliaia di abissini, come dire che per settanta giorni e settanta notti, essi si batterono nella proporzione di una squadra contro una brigata!
L’ultimo militare italiano a essersi arreso durante la battaglia di Adua fu, tanto per cambiare, il vicebrigadiere dei carabinieri Adolfo Iotti che, dislocato sul monte Rajo, non si era accorto della fine dei combattimenti e aveva continuato a battersi fintanto che non fu catturato. In quella guerra una bella prova di sé la diedero anche i fedeli carabinieri indigeni, gli Zaptiè, e loro coraggio è riassumibile in una scarna risposta che, durante un conflitto a fuoco su di un altro monte, l’Emarat, il giorno 17 aprile 1894, uno di essi (un po’ scandalizzato…) diede a un vicebrigadiere che paternamente lo incoraggiava a non avere paura: «Carabiniere mai avere paura!».
Seguirono le missioni “fuori area” a favore della pace a Creta, dove i carabinieri concorsero a sedare le violenze interetniche e organizzarono la locale gendarmeria; in Cina durante la rivolta xenofoba dei boxer. Pur con tutti i limiti che aveva rispetto ad altre nazioni europee, nell’ultimo decennio dell’Ottocento l’Italia cercò di uscire dalla condizione di “grande proletaria” e anche se non vi riuscì del tutto, alcuni progressi in campo industriale furono fatti, così come in campo politico con l’istituzione del suffragio universale che, beninteso, non era ancora ciò che intendiamo oggi per suffragio universale.
Per i carabinieri, però, non era cambiato niente perché, proprio in quel periodo, li ritroviamo a combattere un’altra guerra contro il banditismo in Sardegna, e in Maremma: soltanto nel periodo 1892-1898 la Benemerita perse in Sardegna un ufficiale, un maresciallo, quattro brigadieri e quattordici carabinieri. In compenso molte aree del Paese furono bonificate e banditi del calibro di Ciccio de Rosas, in Sardegna, Domenico Tiburzi e Antonio Ranucci, in Maremma, furono catturati o eliminati.
Qualche anno dopo i carabinieri si ritroveranno coinvolti in un’altra guerra coloniale. Infatti, il più antimilitarista degli uomini di governo italiani, Giovanni Giolitti, per tutta una serie di contingenze internazionali e nazionali, il 29 settembre 1911, decise di fare della Libia una colonia italiana venendo, così, in conflitto con la Turchia di cui la Libia era un possedimento. La conquista di “Tripoli bel suol d’amore” non fu una passeggiata come si sperava, ma i carabinieri, benché presenti in numero esiguo, vi parteciparono con la solita abnegazione. Ma l’Italia, ormai, era nell’anticamera di un conflitto mondiale per il quale già s’intravedevano i prodromi, anzi, la situazione internazionale, si era talmente deteriorata che bastava una scintilla per accendere le polveri.
La scintilla scoccò puntualmente a Sarajevo il 28 giugno 1914, quando l’erede al trono d’Austria fu ucciso da uno studente serbo. Dopo avere a lungo tergiversato, il 26 aprile del 1915, l’Italia firmò il Patto di Londra con il quale s’impegnava a entrare in guerra contro l’Austria entro un mese. Questa era la situazione quando, il 24 maggio del 1915, noi italiani fummo scaraventati nella fornace della I guerra mondiale sicché anche i carabinieri – tra i quali moltissimi volontari – indossarono il grigioverde e diressero in prima linea, dove riceveranno il battesimo del fuoco. Durante la seconda delle dodici battaglie Isonzo, quelle che il generale Luigi Cadorna definiva «spallate» e che in realtà erano dei veri macelli come ebbero a sperimentare i carabinieri sul Podgora, i carabinieri conquisteranno una buona parte delle complessive 1109 medaglie e delle 801 croci di guerra al valor militare assegnate nel corso del conflitto.
Questi freddi numeri, però, appaiono in tutta la loro grandezza soltanto se si ricorda che durante la Grande guerra furono mobilitati per il fronte meno di ventimila carabinieri, come dire che uno ogni dieci tra essi meritò una medaglia al valore! Lo scoppio di una guerra, quali che siano le ragioni che l’hanno provocata, produce sempre due fenomeni contrapposti: il volontarismo e la renitenza. Infatti, i carabinieri che non erano impegnati al fronte, tra i tanti problemi connessi al controspionaggio e all’ordine pubblico, dovettero fronteggiare anche i disertori che ormai erano diventati un esercito di circa centomila individui decisi a tutto pur di non essere separati dalle famiglie che, spesso, avevano soltanto le loro braccia come fonte di reddito.
Poi, nel 1917, sopraggiunse la pagina nera della disfatta di Caporetto. Quando lo Stato maggiore austriaco ideò un’azione contro l’ala sinistra della 2^ Armata italiana, i loro alleati tedeschi dirottarono sul nostro fronte sette Divisioni scelte, ben munite di artiglieria. Il progetto austriaco era, inizialmente, quello di costringere gli italiani ad abbandonare le posizioni conquistate nella primavera precedente, ma i tedeschi, ampliando la manovra, progettarono di risalire il fondovalle dell’Isonzo per assestare il colpo mortale all’Esercito italiano tra Tolmino e Plezzo, al fine di chiudere la partita con l’Italia e potere, così, risucchiare truppe austriache sul fronte francese, che a loro stava molto più a cuore.
Dal punto di vista concettuale i tedeschi manovrarono come fecero con la cavalleria, a Sedàn, e come ancora faranno nel 1939, quando riusciranno a coordinare l’azione delle Divisioni corazzate e dei cacciabombardieri, in quella che sarà chiamata guerra lampo. Il lavoro d’infiltrazione combinata che i tedeschi attuarono nello schieramento francese nel 1870 con le cosiddette antenne di cavalleria, a Caporetto fu svolto, almeno inizialmente, da reparti che potrebbero definirsi grossi pattuglioni. Ebbene, il 24 ottobre del 1917, quei pattuglioni, appoggiati dall’artiglieria, concentrarono la loro azione su di un ristretto segmento del nostro schieramento, riuscendo ad aprire alcune brecce nelle quali si infilarono assieme ai reparti e alla unità che li seguivano.
Fino a quel momento era stato soltanto un tentativo di aggiramento, ma questo bastò a dare ai comandanti italiani la certezza di essere stati presi alle spalle. Né migliore prova diede l’artiglieria del XXVII Corpo d’Armata cui Badoglio aveva proibito di sparare senza un suo ordine, per cui mentre i tedeschi sfilavano in direzione di Caporetto, i suoi cannoni tacquero perché lui era assente.
Stabilire, con precisione, che cosa accadde in quei caotici, tremendi giorni non è facile, anche se gli antefatti qualche risposta riescono a fornirla. E gli antefatti furono esattamente questi: Cadorna voleva che il nostro fronte attuasse l’approntamento di un rapido schieramento difensivo, mentre il comandante della II Armata, generale Luigi Capello, propendeva per quello offensivo. Alla fine – come sempre avviene in questo Paese – si concordò una terza soluzione: uno schieramento idoneo per una controffensiva salvo, appena tre giorni prima di Caporetto, il tardivo tentativo di ritornare allo schieramento difensivo. Insomma, quando gli avversari scatenarono la 12° battaglia dell’Isonzo, Cadorna non sapeva più con quale schieramento li stava fronteggiando.
Ma, pur essendo un disastro militare, Caporetto non riuscì a diventare anche un irrimediabile disastro nazionale soltanto perché i soldati italiani seppero attingere, ancora una volta, alla loro intima essenza emotiva, specialmente i carabinieri che, per quanto pochi nel numero impegnato al fronte, furono grandi nel valore. Il primo a fare le spese della determinazione dei carabinieri fu proprio un comandante tedesco. Infatti, il generale Albert von Berrer che nell’occupare Udine si era spinto imprudentemente avanti con la sua macchina e la scorta, non immaginava che due carabinieri lo stessero aspettando per farlo fuori. Cosa che puntualmente fecero.
Di sicuro ciò che era accaduto sul nostro fronte era stata la sommatoria di molti errori commessi da Cadorna, eppure se l’intero schieramento italiano non crollò a seguito di Caporetto, si dovette al suo sangue freddo e alla decisione di attestarsi rapidamente sul Piave. Nel frattempo, però, stavano disordinatamente rinculando verso Ovest non meno di 400mila militari italiani sbandati, privi di guida e spesso anche disarmati, che bisognava, comunque, recuperare e reinquadrare in reparti organici. In quest’operazione di recupero si distinsero in modo particolare i carabinieri che furano accusati di esserci andati con la mano pesante, anche se, in realtà, furono i Tribunali militari che – in ossequio alle draconiane disposizioni impartite da Cadorna – inflissero molte pene capitali, con esecuzioni sul posto, in “processi” che duravano pochi minuti.
Strano a dirsi, ma durante la Grande guerra i carabinieri diedero il meglio di sé con le lucerne per aria perché molti di essi furono degli eccellenti aviatori. L’elenco dei militi dell’aria, però, sarebbe lungo da farsi e perciò ricordiamo i più noti tra essi come il corazziere Urbinati, il brigadiere Mocellin, il vicebrigadiere Vulcano, il brigadiere Ballandi, il vicebrigadiere Verza e il più volte decorato tenente Cabruna che affrontò e mise in fuga perfino alcuni Fokker della mitica squadriglia di Manfred Von Richtofen, l’asso tedesco dei caccia conosciuto come il Barone Rosso.
Ma la Benemerita stava per essere chiamata a una prova più difficile della Grande guerra che terminò il 4 novembre del 1918. Cessate le ostilità, infatti, nel Paese incominciarono a emergere i problemi e le contraddizioni che la guerra aveva soltanto “raffreddato” e che nel triennio 1919-1922 si faranno incandescenti fino a sfociare nella dittatura fascista che fu originata da molte cause e concause.
Gli echi della rivoluzione russa, un debito pubblico di 160 miliardi di lire dell’epoca e alcuni marchiani errori alla conferenza della pace di Versailles ebbero conseguenze nefaste sul nostro Paese. Alla perdita del potere di acquisto della lira seguirono infatti, la serrata o l’occupazione delle fabbriche, ingenti masse di disoccupati. Ciò in concomitanza con la nascita di un partito politico di matrice cattolica come il Partito popolare, con una produzione che stentava a riconvertirsi alla pace, con il massimalismo al quale erano ritornati i socialisti, le ingenti masse di disoccupati, e con il colpo di mano di D’Annunzio sulla città di Fiume. Insomma quel triennio fu tremendo per chi, come i carabinieri, aveva il compito d’imporre il rispetto e il ripristino della legalità dello Stato, compito che, in un solo triennio, costà al Corpo 43 caduti in servizio.
Purtroppo, il frazionamento delle forze sindacali e politiche democratiche, l’occupazione militare delle istituzione periferiche da parte delle squadre fasciste resero maturi i tempi per la cosiddetta marcia su Roma che fu presa molto sul serio da Vittorio Emanuele III.
A parziale attenuante del re bisogna dire che l’atteggiamento degli alti gradi delle Forze armate, che avrebbero potuto schiacciare il pronunciamiento in quarant’otto ore, non fu incoraggiante, come quando al sovrano che gli chiese se si potesse contare sull’Esercito per fermare le colonne fasciste convergenti su Roma, così rispose il generale Armando Diaz: «Maestà, l’Esercito farà il suo dovere ma è meglio non metterlo alla prova».
In altre parole, restavano soltanto i carabinieri a difendere la legalità dello Stato liberale tant’è che, anche dopo che il re aveva conferito l’incarico a Mussolini di formare il nuovo governo, alcuni di essi che ancora lo ignoravano continuarono a contrastare le squadre fasciste con le armi alla mano. Sta di fatto che il 30 ottobre del 1922 iniziò il primo governo fascista dell’Italia che di lì a poco si tramuterà in una dittatura.
Mussolini, però, non si fidava dell’Esercito e tanto meno dei carabinieri e per questa ragione costituì il suo esercito privato, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, i cui rapporti con la Benemerita furono sempre pessimi perché questa era graniticamente monarchica.
In un’Italia ormai fascistizzata (come amava ripetere Mussolini) arriviamo al 1929 quando Luigi Cirenei, direttore dell’ormai famosa Banda dei Reali Carabinieri, compose “La fedelissima”, ovvero la marcia d’ordinanza dell’Arma, la più eseguita all’epoca dopo la marcia reale. Poi venne la riconquista della Libia, dove la Benemerita, come il solito, scrisse pagine di valore e la guerra d’Etiopia, un conflitto in cui, per la prima e l’ultima volta, l’Italia mise in campo una perfetta organizzazione logistica. Basti pensare che il nostro corpo di spedizione ebbe a disposizione il più alto numero di ufficiali medici che un esercito avesse mai avuto fino ad allora. Sta di fatto che anche la nostra ultima guerra coloniale iniziò con la concessione di una medaglia al valore a un carabiniere, il brigadiere Gennaro Ventura, inquadrato in una delle quattro “bande autocarrate” mobilitate: la prima banda era comandata dal tenente colonnello Teodorico Citerni, la seconda dal maggiore Felice Mauro, la terza dal maggiore Nicola Crocesi e la quarta dal maggiore Rocco Vadalà. Le forze armate somale, invece, erano comandate dal famigerato Ras Nasibù (quello che i teatranti prendevano per i fondelli negli avanspettacoli…) che le aveva attestate nella zona di Dagahbur-Dogamedò e Giggiga, dove svettava quel forte di Gunu Gadu che imporrà il nome ai combattimenti che si svolsero nel circondario e alle quali parteciparono tutte le quattro bande dei carabinieri il 24/25 aprile del 1936. Durante i combattimenti caddero, tra gli altri, il capitano Antonio Bonsignore e il carabiniere Vittoriano Cimarrusti ai quali fu concessa la medaglia d’Oro al Valor Militare sul campo.
(2 – continua)
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