Come annunciato non molto tempo fa, da uomo di parola qual è, Francesco Guccini ha abbandonato il mondo delle canzoni e della musica per dedicarsi con sempre maggior convinzione a quello della letteratura e della saggistica di costume. È uscito così nella collana Libellule della Mondadori il suo “Nuovo dizionario delle cose perdute”.
Il primo dizionario risale a due o a tre anni fa e aveva sulla copertina la foto del pacchetto di sigarette “Nazionali Esportazione”, il famoso pacchetto verde con disegnato sopra un vascello nero; le “Nazionali Esportazione” – lo ricordiamo anche a noi stessi da giovanissimi e squattrinati fumatori che eravamo – facevano pendant con le “Nazionali” semplici, le cosiddette “Napoleon Bleu”, a seguito della N che campeggiava sul frontespizio, e anche con le famose (e micidiali) Alfa e Superalfa, altro prodotto – sebbene molto grezzo e forte – del monopolio italiano. Tutto perduto, tempi grami oggi per le sigarette. E per i fumatori.
La copertina del “Nuovo dizionario”, invece, riproduce l’insegna delle “vecchie” postazioni dei telefoni: un apparecchio telefonico nero in campo giallo, completo di cornetta e cassa, con il cerchio tondo e con i dieci fori entro i quali si doveva porre l’indice e farlo girare per comporre il numero. Tutto sparito anche questo, all’insegna dei cellulari integrati da macchina fotografica, degli iPhone, dei PC portatili e di tutto quanto serve alle nuove (ma anche alle anziane) generazioni. Di sicuro, soltanto una trentina di anni fa, pensare che da lì a poco ce ne saremmo andati in giro, volenti o nolenti, con un telefono in tasca era roba da fantascienza.
Il libro, i libri di Guccini sono un diarietto “alla ricerca del tempo perduto”. Francesco ha deciso di mettere giù per iscritto queste memorie alla soglia dei settantaquattro anni. È perciò di qualche anno più grande di chi redige queste note. Ma i ricordi – perché per la maggior parte si tratta di cose, di luoghi, di situazioni che risalgano agli anni Cinquanta più che ai Sessanta – sono ancora molto nitidi. L’impressione è che il distacco tra le nostre generazioni, per essere chiari i nati fino al 1955/56, e le precedenti sia molto ridotto rispetto a chi è nato dopo, e che è potuto crescere usufruendo a mani basse soprattutto di nuovi mezzi di comunicazione: la Tv, innanzitutto, prima in bianco e nero e con un canale unico, poi (siamo solo alla metà degli anni Settanta) a colori e con canali a centinaia, un segno di libertà ma forse non di vera utilità.
Tra le tante cose e i luoghi che rammenta Guccini vi sono, nel “Nuovo dizionario”, le osterie. L’osteria di una volta – da noi nel Varesotto e nel Milanese la chiamavano anche trani, dal vino pugliese che vi si vendeva –, fumosa e nebbiosa come la riva di un fiume in un mattino di settembre, e non l’Hosteria o, addirittura, l’Hostaria con l’H, dove oggi ti servono camerieri sciccosi, magari in abito settecentesco. Quelle di cui parla Francesco Guccini, e che anche noi ricordiamo, erano più vicine alle locande ottocentesche ed erano gestite da anziani: una signora grassoccia, gonna lunga e scura e ciabatte, uomini allampanati con baschetto, barba di tre giorni e la sigaretta che penzolava dalle labbra. All’interno tre o quattro tavoli, sedie impagliate o di legno scuro, sul bancone il recipiente con le ciliegie sotto spirito e il cestello con le uova sode. Anche la macchina per il caffè espresso (Faema) e il frigo dei gelati (Eldorado) nelle osterie arrivarono con un certo ritardo, alla fine degli anni Cinquanta e all’inizio dei Sessanta, con insieme la sala – dov’era possibile – per vedere la televisione: un armadietto piccolo e tondo che stava appeso sotto al soffitto.
Se si va indietro di mezzo secolo o poco più, a Masnago, al nostro periodo in cui si era ragazzini dunque, piantando un compasso al castello Mantegazza e facendo un cerchio con un raggio di cinquecento metri, di osterie se ne trovano una decina almeno. Di grande interesse gli avventori, grandi personaggi: vecchi (ma qual è la vera età in cui si diventa vecchi?) e pensionati, certamente, come oggi. Ma era anche gente che, spesso, aveva qualcosa da raccontare. Una ritirata in zoccoletti e fasce di feltro avvolte sui piedi, una camminata nella neve e sul ghiaccio nelle spianate dell’Ucraina, i bombardamenti di aerei inglesi e americani che – non molto tempo prima – avevano cercato di colpire (e poi l’avevano centrata) la fabbrica Aermacchi, il poco lavoro che c’era, o che non c’era per niente, come oggi, e che dunque per sopravvivere e per pagare le poche lire del “bicér”, bisognava inventarsi. La sera se ne tornavano a casa un po’ barcollanti ma beati. Anche per la filosofia spicciola che avevano dispensato.
Forse esistono ancora delle osterie, dei luoghi che non sono stati soppiantati dai pub, dai bar moderni con insegne luminose all’americana. “Forse no, ma forse sì”, scrive Guccini alla fine del suo breve racconto. “Conviene cercarle, con pazienza certosina, e in qualche angolo d’Italia, in qualche remota plaga, in qualche pertugio nascosto, all’infaticabile ricercatore sarà dato di trovarne una. In silenzio, senza spargere la voce, potrà sedersi a un tavolo, ordinare un mezzo di vino, non raffinatissimo… E, sorseggiandolo, potrà riandare con la mente serena a tutte le cauponae, le taverne, le osterie dei tempi andati e a tutte le persone che le hanno frequentate e lì hanno trascorso anni della loro vita…”.
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