“La scuola non serve a niente”. È il titolo, provocatorio, del libro del giovane e brillante scrittore Andrea Bajani. (Edizioni Laterza 2014). Sembrerebbe l’ennesimo tentativo di denigrare la maggiore istituzione educativa dopo la famiglia. Invece è la frase gemella di quella scritta su un muro a Cagliari (certamente da un ragazzo): “La scuola non serve più”. Due sintesi perfette che riassumono la crisi che il sistema scuola vive da troppo tempo.
Siamo consapevoli che i problemi dell’universo scolastico non nascono certo oggi e neppure ieri, ma Bajani prova a rispondere alla domanda sottintesa: a cosa serve la scuola? È pur vero che non c’è mai stata nel nostro paese un’età dell’oro dell’istruzione, un periodo in cui le cose funzionavano bene, gli studenti erano molto ricettivi, gli insegnanti bravi e appagati e le aule sicure e ben riscaldate. Ma certamente c’è stato un tempo in cui la missione della scuola era essere più chiara: innalzare il livello culturale generale e preparare le persone per il mondo del lavoro.
La prima funzione, quella di formazione, sembra essere messa irrimediabilmente in crisi dall’avvento di Internet: Google sa tutto prima di noi, meglio di noi. L’accesso alle informazioni è così semplice, continuo e alla portata di tutti, e non è certo solo attraverso la scuola che si vengono a sapere le cose. Una scuola che si ponga il compito di trasmettere solo nozioni sarebbe perdente.
Ma la scuola non deve per forza “servire”, perché, secondo Bajani, e non solo (nel volumetto ci sono contributi di altri autori tra i quali Massimo Recalcati e Mariapia Veladiano), non è una chiave inglese, non risponde a una funzione diretta dai risultati evidenti. La nostra società invece si basa sulla ricerca dell’utile nell’immediato, e di conseguenza, attività come leggere o studiare, ad esempio, sembrano meno importanti perché producono risultati a più lunga scadenza. Forte delle sue esperienze extrascolastiche con tanti giovani, lo scrittore suggerisce di tornare a puntare a quello che c’è dentro la scuola. E dentro la scuola c’è innanzitutto la cultura, termine che rimanda al verbo “coltivare”: curare e fare crescere le nozioni, ma anche la convivenza, la capacità di lettura del mondo.
Non a caso, la scuola è, per molti, il primo – a volte è addirittura l’unico – luogo di aggregazione, dove sperimentare la comunità e la condivisione. Un luogo prezioso, dunque, in un’epoca di profonde solitudini come la nostra. Negli anni, purtroppo, la scuola si è impoverita dei tanti possibili maestri (anzi Maestri) che in passato avevano contribuito a preparare intere generazioni ad affrontare il futuro muniti di un solido bagaglio di nozioni ma anche di passioni e di relazioni: un punto fisso da cui partire per incontrare la vita.
Nell’orizzonte della scuola oggi vediamo delinearsi un nuovo fenomeno, per il quale Bajani usa il neologismo “rinuncianesimo”. Il termine lo ha proposto durante un seminario dello scrittore una partecipante per descrivere la scuola abitata da giovani che non si aspettano più niente. I rinunciatari passivi. A Bajani il termine è sembrato appropriato perché possiede la capacità di evocare qualcosa che “sta a metà strada tra ideologia e religione”, si palesa come “la” chiave per leggere ciò che sta accadendo nella scuola italiana: di qua ragazzi apatici, di là insegnanti disarmati perché privati, o autoprivatisi, della autorevolezza necessaria a chiunque educhi.
Lo psicanalista Recalcati, nelle pagine dello stesso libro, sottolinea come il problema della scomparsa dei padri nella società odierna sia una delle cause della perdita di prestigio della scuola: niente più “padri padroni” ma neppure educatori con la qualifica di Maestro, come quella attribuita al maestro elementare Manzi. Allora che cosa può fare l’insegnante? Dare testimonianza di sé, continuare a istruire con entusiasmo, ricorrendo a metodi concreti; riconoscere che gli spetta il compito di rappresentare degnamente lo Stato, di cui non è solo un dipendente ma un costruttore, e di contribuire a costruire un’immagine positiva delle istituzioni. Ricevendo in cambio dallo Stato, anch’esso impegnato a ritrovare la propria autorità, il meritato supporto.
Nel libro si guarda alla scuola degli altri, che, chissà perché, ci appare sempre migliore della nostra. In Germania i docenti scendono dalla cattedra e si mettono a lavorare a stretto contatto con i ragazzi, smontano e rimontano con spirito pragmatico una cultura viva; in Gran Bretagna le prove ufficiali (le tanto discusse prove Invalsi) sono accettate come necessarie, utili e incontestabili, i risultati di ogni scuola pubblicati sulla stampa locale. Non sono considerate né un male né un bene, bensì una realtà con cui confrontarsi ogni anno.
Naturalmente quello di Bajani è un contributo, non un ricettario. Le sue suggestioni paiono ragionevoli. Perché arrivano da una persona che per lavoro maneggia parole. E si riassumono, più o meno, così: facciamo ripartire la scuola dalle “parole”. “Perché solo le parole possono salvarci”. Nei suoi seminari sulla scrittura lo scrittore insegna ai giovani a denominare le cose per consentire a oggetti, eventi, fatti, fenomeni, di uscire dal buio dell’indistinto per diventare riconoscibili.
Il suo libro ci dice che la scuola può ancora servire se impegna i giovani a porsi domande, a cercare risposte, a dare una forma al mondo. Un compito non nuovo, già noto ai manuali di pedagogia: divenire il luogo per eccellenza della formazione dello spirito critico, indispensabile oggi nell’era dell’informazione a tutto campo, della conoscenza diffusa che però, senza il suo filtro, “sarebbe merce senza valore”.
“La scuola non serve a niente” di Andrea Bajani- Edizioni Laterza, 2014.
You must be logged in to post a comment Login